numero

novembre 2024

AAA CERCASI UTOPIE

DA ABITARE

di Jacqueline Ceresoli Milano è classificata prima nell’indagine annuale sulla qualità della vita realizzata Italia- Oggi e ItalCommunications in collaborazione con l’Università la Sapienza di Roma, e siamo (quasi) tutti contenti , ma a giudicare dall’aumento della povertà, violenza di genere, emarginazione sociale di immigrati in strada o senza tetto accampati qua e in centro e periferia, più o meno invisibili, mi viene qualche dubbio! E di questi “fantasmi” fino a quando non diventano protagonisti di fatti di cronaca nera non se ne parla, allora sono ‘mostri’ in prima pagina, perché scippano, rubano, violentano una malcapitata o molestano qualcuno sotto l’effetto di droghe o alcool per sopravvivere al proprio degrado esistenziale. Così nel flusso medico di ordinaria follia quotidiana, questi fatti di delinquenza urbana, comune a molte città, alimentano razzismo, cinismo e manifestano il disagio di una società malata; siamo scuri allora di stare proprio tutti bene? Che dire poi del degrado delle zone di Milano intorno San Siro, Giambellino, Rogoredo, Corvetto e altre periferie, dove tra microdelinquenza, spaccio e discariche abusive tra piazzale Selinunte e Segesta, fermata del metrò Lilla, succede di tutto e di più, e proprio in queste aree fuori dai bagliori della splendente e illuminata city instagrammata da social network addicted di ogni età, ai margini dei centri della movida milanese, anche se da anni i residenti denunciano un malessere sociale endemico, tutto resta uguale, assistiamo a una perdita generale di identità, e più o meno tutti fingiamo di non vedere. Fatta tale premessa possiamo davvero parlare di qualità di vita a Milano? Milano ha problemi di sicurezza, di illuminazione nelle periferie, gli abitanti sono per lo più single, e la maggioranza dei cittadini è over sessanta. Si aggiunga che non è attrattiva per i giovani causa caro vita, e l’emergenza abitativa è una spina nel fianco per tutte le fasce di età a reddito medio-basso. Queste sono problematiche sociali offuscate da immagini “facciatiste” con paesaggi urbani accattivanti di nuove aeree residenziali sbocciate come papaveri all’ombra di speculazioni immobiliari nei luoghi più ameni della città, diventati ‘ghetti’ di lusso per una casta elitaria. Ma la domanda è di quale Milano stiamo parlando e, soprattutto, come la immaginiamo nel futuro? Pensiamo a quella mondana, da manifesto cinematografico, scenografica, totemica e futurista, che sale, immortalata dai social- media, oppure vediamo anche il suo lato B, dove tutto è al di sotto della soglia minima di povertà e dignità umana, abitata dal degrado e della desolazione come, per esempio, davanti e nelle vie laterali attorno alla Stazione Centrale? Di quale Milano stiamo parlando, quella dei borghesi o dei vip parcheggiati nei loro distretti confortevoli, dove non si incontrano volti sofferenti di stranieri, o la casta di poveri non accettati da nessuna parte, mentre quelli ricchi sono benvenuti ovunque? Milano è città specchio di molte altre città, dove una parte di umanità fantasma, disperata e rassegnata a una vita senza speranza non fa testo perché non fa reddito o non produce una immagine vincente, non consuma divertimenti, non è elegante ed è un peso inutile. Che fare dunque se non condividere utopie possibili di appartenere tutti alla stessa grande Milano da immaginare come una comunità solidale, pronta a integrare chi di possibilità non ha mai avute e ha solo bisogno di fiducia, rispetto, di un posto dignitoso dove stare, un lavoro sicuro per ricominciare? La società italiana è profondamente cambiata negli ultimi anni, la ripartizione tra borghesi e proletariato, come a suggerito Max Weber si è dissolta dal 1999, con la globalizzazione e il neoliberismo, quando Zygmunt Bauman con il suo libro “Società liquida”, ha compreso che nonostante precariato, instabilità, immigrazione; tutti aspirano a possedere almeno un telefonino, una casa, l’auto, le vacanze e capi o accessori firmati, lussi ambiti da più o meno tutti i ragazzi di periferia che venderebbero droghe ai propri coetanei o la sorella al miglior offerente pur di indossare un paio di scarpe Nike o un jeans griffato. Dagli anni Ottanta i meccanismi della mobilità sociale si sono inceppati e le differenze tra i sempre più ricchi e i sempre più poveri sono abissali. In pratica tutti possono studiare, ma nella realtà dei fatti mantenere un figlio all’università per genitori operai o artigiani in una città cara come Milano, è un impegno assai gravoso per non dire impossibile. Si aggiunga la problematica della mancanza di lavoro per i giovani figli neolaureati di ‘neoproletari’, spesso costretti a ripiegare su lavori lontani dalle loro competenze e aspettative, precari o in “nero” per sbarcare il lunario e non dipendere dai propri genitori già economicamente dissanguati, aumentando così la sacca dell’illegalità e della frustrazione sociale di una generazione rassegnata al peggio, che non desidera nulla se non la sicurezza di un posto se possibile statale , che non riesce a costruirsi una carriera professionale, tantomeno una famiglia se non è figlio di avvocati, notai, medici, magistrati, imprenditori, facoltosi imprenditori o politici. Per migliore la propria condizione di vita non basta più investire nello studio, conquistare una laurea, contano di più le relazioni sociali, prevale il clientelismo (alias familismo) basato su favoritismi (soprattutto in campo politico, avvocati e magistrati o medici), in nome di un reciproco interesse, fattori di ceto sociale che prevalgono sul merito. E in questo desolante scenario non è un caso vedere tanti giovani emigrare all’estero, dove sei valutato per ciò che sai fare e rispettato per le tue prestazioni professionali È inutile ripetere il tantra che la crescita delle disuguaglianze e delle tante classi sociali, favorisce il divario economico tra il nord e il sud d’Italia e nel mondo, fattori che sappiamo stanno minando l’economia, la politica e la società, mentre la fiducia nel futuro langue e sbiadisce l’utopia della fratellanza: cioè la più sfuggente e difficile dei tre comandamenti della Rivoluzione francese, da condividere in una società priva di valori umani, in cui la vita vale il costo di un’auricolare. La mia utopia è condividere presto con tutti la parità di genere che di sicuro non basta per spiegare le differenze, ma incominciare a vedere molte donne laureate nelle materie scientifiche ed economiche di diverse estrazioni sociali o etnie raggiungere un salario equo, libere di essere madri senza rinunciare al proprio lavoro per necessità di gestione famigliare a costi contenuti, occupare presto posti chiave di potere nell’economia, trovare più amministratrici nelle aziende e nelle banche, nelle società pubbliche e private… Allora forse qualcosa potrebbe cambiare. L’ utopia più coinvolgente, universale di tutti i tempi e per la quale vale la pena anche morire, è e sarà sempre la Libertà, che però è incompleta senza giustizia sociale, senza il benessere collettivo e non individuale, in cui il noi prevalga sempre sul mio e il tuo a favore del nostro. Raggiungere tale obiettivo comporta rinunciare tutti a qualcosa per stare meglio insieme domani, ma a un tale cambiamento epocale in realtà non siamo pronti, non sembriamo volerlo dimostriamo di crederci più di tanto. A parole siamo tutti solidali con i più deboli, filoambientalisti, filantropi, ma nei fatti facciamo di tutto per continuare a mantenere i piccoli o grandi privilegi che abbiamo conquistato. Se il neoliberalismo è un fallimento conclamato, come dice Joseph Stigliz, premio Nobel per l’economia nel 2001, Chief economist alla Banca mondiale, allora qual è la strada per la liberà e per una società più giusta? In primis dovremmo cambiare i nostri valori, comportamenti e obiettivi, ma non siamo più capaci di rivolte sociali, ci limitiamo a manifestazioni in piazza di qualche ora e poi tutto finisce lì, tra un Instagram e l’altro, perché non ci impegniamo abbastanza. Il consumismo ha anestetizzato i grandi desideri di cambiare i nostri stili di vita. Abbiamo barattato la nostra sicurezza con l’infelicità degli altri. Manca l’utopia di liberarci della povertà, di realizzare la giustizia sociale. Ognuno rivendica diritti ma non riconosce i propri doveri nei confronti degli altri. E ci accontentiamo di una fragile sicurezza quotidiana: frigorifero pieno, cellulare attivo, auto parcheggiata possibilmente sotto casa (meglio se di proprietà) e… basta così! Navighiamo a vista nella mediocrità, e in questo scenario desolante nessuno può dichiararsi innocente. Pochi scendono in strada per giorni, mesi o anni per sostenere una rivolta sociale e culturale, con il fine di garantire sicurezze a tutti. Crediamo e siamo fedeli al consumismo convulsivo che ha sedato gli animi. Abbiamo scambiato il benessere personale per un valore universale. Milano con il Salone del Mobile, per una settimana si trasforma in un display per happening collettivi, dove condividere divertimento, movida e vacuità, che riassume in parte l’energia creativa di una città sempre più votata al “mordi e fuggi” turistico, sempre meno interessata alla qualità della vita dei cittadini. I residenti nei quartieri della movida, infastiditi da caos e abusi di spazio pubblico, reclamano ma poi si rassegnano, perché non hanno voce in capitolo e non fanno testo. Vince il divertimento che produce denaro e l’immagine di una società effimera, votata al vuoto esistenziale. Dobbiamo capire qual è il patrimonio di Milano, quello dei capitali e della finanza o quello rappresentato dai suoi cittadini? Vince il capitale dei liberalisti –individualisti che puntando su eventi performativi fini a sé stessi, d’immagine da postare in rete. Milano è pragmatica, laboriosa, inclusiva, più vicina all’Europa rispetto a Roma. E trova nell’arte del far bene una sua identità precisa, perfino sul piano della cultura dell’effimero. Questo è certamente un valore, ma non basta; serve una regia, un patto condiviso tra governanti e cittadini sulla vivibilità di Milano a passo d’uomo, civile e responsabile. Milano oggi è problematica e complessa come lo sono tutte le metropoli europee. Va sfogliata come un libro che raccoglie mille racconti, ma dove non tutte le storie sono affascinanti! Milano è aperta per sua natura e cultura all’imprevedibilità dei flussi di vita, ma pecca di superficialità. Circa il verde (vedi l’esempio di Biocittà), Milano si sta impegnando moltissimo, ma può fare meglio e includere più piste ciclabili che dovrebbero connettere tra loro le 9 municipalità di Milano. Gli alberi fanno ombra, assorbono l’acqua e ripuliscono l’aria, si piantano, ma sono ancora troppo pochi e concentrati in alcune zone della città, per molti è più proficuo investire nelle speculazioni immobiliari di privati, intanto chi governa la città non risponde adeguatamente alla domanda di abitazioni a prezzi moderati calmierati, accessibili a giovani e a classi meno abbienti. Sull’inquinamento e congestione del traffico, micro delinquenza a parte (problema di molte grandi città), manca una strategia condivisa, una visione d’insieme (di destra o di sinistra) preparata ad agire per il bene collettivo e capace di coordinare con intelligenza domanda e offerta di servizi tra le diverse zone. Dall’Expo del 2015 Milano ha puntato più sulla speculazione immobiliare che sul miglioramento della qualità sociale, della salute e vivibilità urbana. Milano non accontenta tutti e mai lo farà, segue un modello di democrazia imperfetta, e tutto sommato l’offerta culturale è soddisfacente, ma bisognerebbe fare meglio per quanto riguarda integrazione sociale, scuole e sanità. Si dovrebbe rafforzare un sistema di reti sociali e norme condivise basato sulla fiducia e reciprocità tra cittadino e istituzioni. La vita in certe periferie male o poco illuminate, non ancora servite dalle linee della metropolitana non è facile, e anche l’affitto degli appartamenti più o meno grandi, risulta comunque fuori scala in base ai disagi dell’area decentrata. Milano è un grande “paesotto” se paragonata a Berlino, Parigi o a quella Roma che Fellini camminando per i viali dell’EUR chiamava “placenta del mondo”, ma agli stranieri piace proprio per questo, affascinati dai suoi quartieri, con case tutte diverse, dove l’anima popolare è ancora componente identitaria e la solidarietà sociale un valore aggiunto non scontato, al contrario della gentrificazione imperante nel centro storico, Nei quartieri funzionano in maniera imperfetta piccole e grandi associazioni di volontariato, mirate all’assistenza sanitaria, al sostegno sociale e alla gestione delle biblioteche rionali, dove lo straordinario “capitale umano” del volontariato opera con passione, determinazione e pragmatismo generativo, trovando sempre soluzioni a vecchi e nuovi problemi. Immagino Milano nel 2030, più verde, più lenta. Sarà una grande comunità dove vivere serenamente, pensata per essere attraversata comodamente a piedi o in bicicletta, con il centro storico (asse da piazza Duomo- distretto la Grande Brera, compreso il Castello fino a piazza Gae Aulenti) completamente pedonale, con moltissimi alberi e meno automobili parcheggiate lungo i marciapiedi, moltissime piste ciclabili a connettere tra loro le 9 Zone della città. Mi immagino le piazze delle periferie liberate da auto e discariche abusive, traversate a piedi o pedalando, trovando lungo il cammino aree di sosta pubbliche, acqua, panchine, giardini, parchi giochi per bambini, e soprattutto all’orizzonte solo mezzi leggeri, tutti elettrici! Ma come diceva il professor Albert Sorel in Jules et Jim di François Truffaut, “l’avvenire è dei curiosi di professione”, e ciò che accadrà lo vedremo soltanto vivendo. Vincerà lo “spirito creativo”, il pragmatismo imprenditoriale di questa città che sale, non più morale bensì commerciale, vacua e performativa, frivola e inquinata malgrado le sue eccellenti università, oppure vedremo una città verde, cuore pulsante di oggi per domani e con soluzioni abitative attrattive per i giovani? Milano riuscirà a prendersi cura dei più fragili se avrà davvero il coraggio di attuare un cambio di passo, se riuscirà a proporre progetti “intelligenti” e sensibili alle marginalità, se ascolterà imprenditori e politici illuminati capaci di rispondere a problematiche complesse… Immagino gli architetti e urbanisti uniti alle imprese di costruttori onesti contro mafie e lobby, come agenti a servizio dei cittadini e della città, capaci di innescare processi evolutivi sensibili per rispondere a nuove esigenze sociali, cooperando con molteplici discipline e settori scientifici. E penso anche a una Milano meglio illuminata, quindi più sicura oltre che più bella, con lampioni e punti luce come strumento di conoscenza e monitoraggio sulle problematiche della città, come quelli studiati al Senseable City Lab di Carlo Ratti, architetto e ingegnere presso il MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, un laboratorio dove si fa ricerca e si sperimentano nuove tecnologie per trasformare le città in luoghi sempre più vivibili e green. Vorrei non sprecare energia, non illuminare in aria e a vuoto,ma avere lampioni o una illuminazione LED dotata di sistemi capaci di controllare l’intensità della luce zona per zona, con sistemi multipli. Cosa mi manca di più? Mi manca l’immaginario collettivo di una Milano accogliente, che mette al primo posto l’arte come premessa di una comunità civile, meno ipocrita e più etica. pronta a lottare per una democrazia economica che mette da parte cinismo e individualismo. Non siamo educati alla “res publica”, non condividiamo il desiderio di vivere meglio, tutti assieme in modo solidale. Vorrei condividere con le nuove generazioni la sfida di rinunciare alla densità dei corpi in alcune aree della città in favore dell’intensità di relazioni umane e conoscenza di culture altre. Ciascuno pensa alla sua Milano in maniera diversa che però non è mai nostra. Fino a quando non avremo un orizzonte comune di vita in città, abitata da persone con origini, cultura, lingue, tradizioni e aspettative differenti, uniti però dall’idea di essere comunità, nulla muterà realmente. Invecchieremo nel “brodo primordiale” del nostro cinismo. Intanto come naufraghi continueremo a vivere tra una barriera d’asfalto e l’altra, cemento e foreste di grattacieli che consumano ettari di suolo per il benessere di pochi eletti. Immagino una Milano in corsa verso uno sviluppo urbano sostenibile, in cui i quartieri diventeranno centri polifunzionali autonomi, dotati di parco, teatro, cinema, musei, librerie, scuole e luoghi d’incontro per giovani di tutte le età, centri di assistenza sanitaria dove rifioriranno piccole realtà artigianali. Mestieri antichi in via di estinzione, attività commerciali a misura d’uomo in base ai bisogni… Le piante, le riforme sulla sicurezza e i codici stradali o l’investimento nel verde su larga scala, da sole non salveranno Milano. Occorre la volontà collettiva di ripensare la città come forma civilizzata di comunità umana, in cui accogliere le complessità come opportunità di cambiamento per una città che trasforma le fragilità in punti di forza e rende possibile il riscatto sociale e culturale di tutti. Questa è la mia utopia. Magari faziosa, banale, ma i sogni sono desideri, e se sono condivisi possono davvero volgersi in realtà d’azione e cambiare il mondo. Lo dimostra la storia, plasmata nel bene e nel male da grandi utopie e idealità espresse da donne e uomini coraggiosi.

riContemporaneo.org | opinioni, polemiche, proposte sull’arte contemporanea

 | © blogMagazine pensato, realizzato e pubblicato in rete da Giorgio Seveso  dal 2011   |    Codice ISSN 2239-0235 |
20 Jacqueline Ceresoli  Saggista, storica e critica dell’arte, vive e opera a Milano come docente universitaria e curatrice di mostre indipendente. Collabora a diverse testate di architettura e arte.
Le immagini sono di Fernando De Filippi
© blogMagazine pubblicato in rete da Giorgio Seveso dal 2011 - Codice ISSN 2239-0235

polemiche e proposte sull’arte contemporanea

20
novembre 2024

AAA CERCASI

UTOPIE

DA ABITARE

di Jacqueline Ceresoli Milano è classificata prima nell’indagine annuale sulla qualità della vita realizzata Italia-Oggi e ItalCommunications in collaborazione con l’Università la Sapienza di Roma, e siamo (quasi) tutti contenti , ma a giudicare dall’aumento della povertà, violenza di genere, emarginazione sociale di immigrati in strada o senza tetto accampati qua e in centro e periferia, più o meno invisibili, mi viene qualche dubbio! E di questi “fantasmi” fino a quando non diventano protagonisti di fatti di cronaca nera non se ne parla, allora sono ‘mostri’ in prima pagina, perché scippano, rubano, violentano una malcapitata o molestano qualcuno sotto l’effetto di droghe o alcool per sopravvivere al proprio degrado esistenziale. Così nel flusso medico di ordinaria follia quotidiana, questi fatti di delinquenza urbana, comune a molte città, alimentano razzismo, cinismo e manifestano il disagio di una società malata; siamo scuri allora di stare proprio tutti bene? Che dire poi del degrado delle zone di Milano intorno San Siro, Giambellino, Rogoredo, Corvetto e altre periferie, dove tra microdelinquenza, spaccio e discariche abusive tra piazzale Selinunte e Segesta, fermata del metrò Lilla, succede di tutto e di più, e proprio in queste aree fuori dai bagliori della splendente e illuminata city instagrammata da social network addicted di ogni età, ai margini dei centri della movida milanese, anche se da anni i residenti denunciano un malessere sociale endemico, tutto resta uguale, assistiamo a una perdita generale di identità, e più o meno tutti fingiamo di non vedere. Fatta tale premessa possiamo davvero parlare di qualità di vita a Milano? Milano ha problemi di sicurezza, di illuminazione nelle periferie, gli abitanti sono per lo più single, e la maggioranza dei cittadini è over sessanta. Si aggiunga che non è attrattiva per i giovani causa caro vita, e l’emergenza abitativa è una spina nel fianco per tutte le fasce di età a reddito medio- basso. Queste sono problematiche sociali offuscate da immagini “facciatiste” con paesaggi urbani accattivanti di nuove aeree residenziali sbocciate come papaveri all’ombra di speculazioni immobiliari nei luoghi più ameni della città, diventati ‘ghetti’ di lusso per una casta elitaria. Ma la domanda è di quale Milano stiamo parlando e, soprattutto, come la immaginiamo nel futuro? Pensiamo a quella mondana, da manifesto cinematografico, scenografica, totemica e futurista, che sale, immortalata dai social-media, oppure vediamo anche il suo lato B, dove tutto è al di sotto della soglia minima di povertà e dignità umana, abitata dal degrado e della desolazione come, per esempio, davanti e nelle vie laterali attorno alla Stazione Centrale? Di quale Milano stiamo parlando, quella dei borghesi o dei vip parcheggiati nei loro distretti confortevoli, dove non si incontrano volti sofferenti di stranieri, o la casta di poveri non accettati da nessuna parte, mentre quelli ricchi sono benvenuti ovunque? Milano è città specchio di molte altre città, dove una parte di umanità fantasma, disperata e rassegnata a una vita senza speranza non fa testo perché non fa reddito o non produce una immagine vincente, non consuma divertimenti, non è elegante ed è un peso inutile. Che fare dunque se non condividere utopie possibili di appartenere tutti alla stessa grande Milano da immaginare come una comunità solidale, pronta a integrare chi di possibilità non ha mai avute e ha solo bisogno di fiducia, rispetto, di un posto dignitoso dove stare, un lavoro sicuro per ricominciare? La società italiana è profondamente cambiata negli ultimi anni, la ripartizione tra borghesi e proletariato, come a suggerito Max Weber si è dissolta dal 1999, con la globalizzazione e il neoliberismo, quando Zygmunt Bauman con il suo libro “Società liquida”, ha compreso che nonostante precariato, instabilità, immigrazione; tutti aspirano a possedere almeno un telefonino, una casa, l’auto, le vacanze e capi o accessori firmati, lussi ambiti da più o meno tutti i ragazzi di periferia che venderebbero droghe ai propri coetanei o la sorella al miglior offerente pur di indossare un paio di scarpe Nike o un jeans griffato. Dagli anni Ottanta i meccanismi della mobilità sociale si sono inceppati e le differenze tra i sempre più ricchi e i sempre più poveri sono abissali. In pratica tutti possono studiare, ma nella realtà dei fatti mantenere un figlio all’università per genitori operai o artigiani in una città cara come Milano, è un impegno assai gravoso per non dire impossibile. Si aggiunga la problematica della mancanza di lavoro per i giovani figli neolaureati di ‘neoproletari’, spesso costretti a ripiegare su lavori lontani dalle loro competenze e aspettative, precari o in “nero” per sbarcare il lunario e non dipendere dai propri genitori già economicamente dissanguati, aumentando così la sacca dell’illegalità e della frustrazione sociale di una generazione rassegnata al peggio, che non desidera nulla se non la sicurezza di un posto se possibile statale , che non riesce a costruirsi una carriera professionale, tantomeno una famiglia se non è figlio di avvocati, notai, medici, magistrati, imprenditori, facoltosi imprenditori o politici. Per migliore la propria condizione di vita non basta più investire nello studio, conquistare una laurea, contano di più le relazioni sociali, prevale il clientelismo (alias familismo) basato su favoritismi (soprattutto in campo politico, avvocati e magistrati o medici), in nome di un reciproco interesse, fattori di ceto sociale che prevalgono sul merito. E in questo desolante scenario non è un caso vedere tanti giovani emigrare all’estero, dove sei valutato per ciò che sai fare e rispettato per le tue prestazioni professionali È inutile ripetere il tantra che la crescita delle disuguaglianze e delle tante classi sociali, favorisce il divario economico tra il nord e il sud d’Italia e nel mondo, fattori che sappiamo stanno minando l’economia, la politica e la società, mentre la fiducia nel futuro langue e sbiadisce l’utopia della fratellanza: cioè la più sfuggente e difficile dei tre comandamenti della Rivoluzione francese, da condividere in una società priva di valori umani, in cui la vita vale il costo di un’auricolare. La mia utopia è condividere presto con tutti la parità di genere che di sicuro non basta per spiegare le differenze, ma incominciare a vedere molte donne laureate nelle materie scientifiche ed economiche di diverse estrazioni sociali o etnie raggiungere un salario equo, libere di essere madri senza rinunciare al proprio lavoro per necessità di gestione famigliare a costi contenuti, occupare presto posti chiave di potere nell’economia, trovare più amministratrici nelle aziende e nelle banche, nelle società pubbliche e private… Allora forse qualcosa potrebbe cambiare. L’ utopia più coinvolgente, universale di tutti i tempi e per la quale vale la pena anche morire, è e sarà sempre la Libertà, che però è incompleta senza giustizia sociale, senza il benessere collettivo e non individuale, in cui il noi prevalga sempre sul mio e il tuo a favore del nostro. Raggiungere tale obiettivo comporta rinunciare tutti a qualcosa per stare meglio insieme domani, ma a un tale cambiamento epocale in realtà non siamo pronti, non sembriamo volerlo dimostriamo di crederci più di tanto. A parole siamo tutti solidali con i più deboli, filoambientalisti, filantropi, ma nei fatti facciamo di tutto per continuare a mantenere i piccoli o grandi privilegi che abbiamo conquistato. Se il neoliberalismo è un fallimento conclamato, come dice Joseph Stigliz, premio Nobel per l’economia nel 2001, Chief economist alla Banca mondiale, allora qual è la strada per la liberà e per una società più giusta? In primis dovremmo cambiare i nostri valori, comportamenti e obiettivi, ma non siamo più capaci di rivolte sociali, ci limitiamo a manifestazioni in piazza di qualche ora e poi tutto finisce lì, tra un Instagram e l’altro, perché non ci impegniamo abbastanza. Il consumismo ha anestetizzato i grandi desideri di cambiare i nostri stili di vita. Abbiamo barattato la nostra sicurezza con l’infelicità degli altri. Manca l’utopia di liberarci della povertà, di realizzare la giustizia sociale. Ognuno rivendica diritti ma non riconosce i propri doveri nei confronti degli altri. E ci accontentiamo di una fragile sicurezza quotidiana: frigorifero pieno, cellulare attivo, auto parcheggiata possibilmente sotto casa (meglio se di proprietà) e… basta così! Navighiamo a vista nella mediocrità, e in questo scenario desolante nessuno può dichiararsi innocente. Pochi scendono in strada per giorni, mesi o anni per sostenere una rivolta sociale e culturale, con il fine di garantire sicurezze a tutti. Crediamo e siamo fedeli al consumismo convulsivo che ha sedato gli animi. Abbiamo scambiato il benessere personale per un valore universale. Milano con il Salone del Mobile, per una settimana si trasforma in un display per happening collettivi, dove condividere divertimento, movida e vacuità, che riassume in parte l’energia creativa di una città sempre più votata al “mordi e fuggi” turistico, sempre meno interessata alla qualità della vita dei cittadini. I residenti nei quartieri della movida, infastiditi da caos e abusi di spazio pubblico, reclamano ma poi si rassegnano, perché non hanno voce in capitolo e non fanno testo. Vince il divertimento che produce denaro e l’immagine di una società effimera, votata al vuoto esistenziale. Dobbiamo capire qual è il patrimonio di Milano, quello dei capitali e della finanza o quello rappresentato dai suoi cittadini? Vince il capitale dei liberalisti –individualisti che puntando su eventi performativi fini a stessi, d’immagine da postare in rete. Milano è pragmatica, laboriosa, inclusiva, più vicina all’Europa rispetto a Roma. E trova nell’arte del far bene una sua identità precisa, perfino sul piano della cultura dell’effimero. Questo è certamente un valore, ma non basta; serve una regia, un patto condiviso tra governanti e cittadini sulla vivibilità di Milano a passo d’uomo, civile e responsabile. Milano oggi è problematica e complessa come lo sono tutte le metropoli europee. Va sfogliata come un libro che raccoglie mille racconti, ma dove non tutte le storie sono affascinanti! Milano è aperta per sua natura e cultura all’imprevedibilità dei flussi di vita, ma pecca di superficialità. Circa il verde (vedi l’esempio di Biocittà), Milano si sta impegnando moltissimo, ma può fare meglio e includere più piste ciclabili che dovrebbero connettere tra loro le 9 municipalità di Milano. Gli alberi fanno ombra, assorbono l’acqua e ripuliscono l’aria, si piantano, ma sono ancora troppo pochi e concentrati in alcune zone della città, per molti è più proficuo investire nelle speculazioni immobiliari di privati, intanto chi governa la città non risponde adeguatamente alla domanda di abitazioni a prezzi moderati calmierati, accessibili a giovani e a classi meno abbienti. Sull’inquinamento e congestione del traffico, micro delinquenza a parte (problema di molte grandi città), manca una strategia condivisa, una visione d’insieme (di destra o di sinistra) preparata ad agire per il bene collettivo e capace di coordinare con intelligenza domanda e offerta di servizi tra le diverse zone. Dall’Expo del 2015 Milano ha puntato più sulla speculazione immobiliare che sul miglioramento della qualità sociale, della salute e vivibilità urbana. Milano non accontenta tutti e mai lo farà, segue un modello di democrazia imperfetta, e tutto sommato l’offerta culturale è soddisfacente, ma bisognerebbe fare meglio per quanto riguarda integrazione sociale, scuole e sanità. Si dovrebbe rafforzare un sistema di reti sociali e norme condivise basato sulla fiducia e reciprocità tra cittadino e istituzioni. La vita in certe periferie male o poco illuminate, non ancora servite dalle linee della metropolitana non è facile, e anche l’affitto degli appartamenti più o meno grandi, risulta comunque fuori scala in base ai disagi dell’area decentrata. Milano è un grande “paesotto” se paragonata a Berlino, Parigi o a quella Roma che Fellini camminando per i viali dell’EUR chiamava “placenta del mondo”, ma agli stranieri piace proprio per questo, affascinati dai suoi quartieri, con case tutte diverse, dove l’anima popolare è ancora componente identitaria e la solidarietà sociale un valore aggiunto non scontato, al contrario della gentrificazione imperante nel centro storico, Nei quartieri funzionano in maniera imperfetta piccole e grandi associazioni di volontariato, mirate all’assistenza sanitaria, al sostegno sociale e alla gestione delle biblioteche rionali, dove lo straordinario “capitale umano” del volontariato opera con passione, determinazione e pragmatismo generativo, trovando sempre soluzioni a vecchi e nuovi problemi. Immagino Milano nel 2030, più verde, più lenta. Sarà una grande comunità dove vivere serenamente, pensata per essere attraversata comodamente a piedi o in bicicletta, con il centro storico (asse da piazza Duomo- distretto la Grande Brera, compreso il Castello fino a piazza Gae Aulenti) completamente pedonale, con moltissimi alberi e meno automobili parcheggiate lungo i marciapiedi, moltissime piste ciclabili a connettere tra loro le 9 Zone della città. Mi immagino le piazze delle periferie liberate da auto e discariche abusive, traversate a piedi o pedalando, trovando lungo il cammino aree di sosta pubbliche, acqua, panchine, giardini, parchi giochi per bambini, e soprattutto all’orizzonte solo mezzi leggeri, tutti elettrici! Ma come diceva il professor Albert Sorel in Jules et Jim di François Truffaut, “l’avvenire è dei curiosi di professione”, e ciò che accadrà lo vedremo soltanto vivendo. Vincerà lo “spirito creativo”, il pragmatismo imprenditoriale di questa città che sale, non più morale bensì commerciale, vacua e performativa, frivola e inquinata malgrado le sue eccellenti università, oppure vedremo una città verde, cuore pulsante di oggi per domani e con soluzioni abitative attrattive per i giovani? Milano riuscirà a prendersi cura dei più fragili se avrà davvero il coraggio di attuare un cambio di passo, se riuscirà a proporre progetti “intelligenti” e sensibili alle marginalità, se ascolterà imprenditori e politici illuminati capaci di rispondere a problematiche complesse… Immagino gli architetti e urbanisti uniti alle imprese di costruttori onesti contro mafie e lobby, come agenti a servizio dei cittadini e della città, capaci di innescare processi evolutivi sensibili per rispondere a nuove esigenze sociali, cooperando con molteplici discipline e settori scientifici. E penso anche a una Milano meglio illuminata, quindi più sicura oltre che più bella, con lampioni e punti luce come strumento di conoscenza e monitoraggio sulle problematiche della città, come quelli studiati al Senseable City Lab di Carlo Ratti, architetto e ingegnere presso il MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, un laboratorio dove si fa ricerca e si sperimentano nuove tecnologie per trasformare le città in luoghi sempre più vivibili e green. Vorrei non sprecare energia, non illuminare in aria e a vuoto,ma avere lampioni o una illuminazione LED dotata di sistemi capaci di controllare l’intensità della luce zona per zona, con sistemi multipli. Cosa mi manca di più? Mi manca l’immaginario collettivo di una Milano accogliente, che mette al primo posto l’arte come premessa di una comunità civile, meno ipocrita e più etica. pronta a lottare per una democrazia economica che mette da parte cinismo e individualismo. Non siamo educati alla “res publica”, non condividiamo il desiderio di vivere meglio, tutti assieme in modo solidale. Vorrei condividere con le nuove generazioni la sfida di rinunciare alla densità dei corpi in alcune aree della città in favore dell’intensità di relazioni umane e conoscenza di culture altre. Ciascuno pensa alla sua Milano in maniera diversa che però non è mai nostra. Fino a quando non avremo un orizzonte comune di vita in città, abitata da persone con origini, cultura, lingue, tradizioni e aspettative differenti, uniti però dall’idea di essere comunità, nulla muterà realmente. Invecchieremo nel “brodo primordiale” del nostro cinismo. Intanto come naufraghi continueremo a vivere tra una barriera d’asfalto e l’altra, cemento e foreste di grattacieli che consumano ettari di suolo per il benessere di pochi eletti. Immagino una Milano in corsa verso uno sviluppo urbano sostenibile, in cui i quartieri diventeranno centri polifunzionali autonomi, dotati di parco, teatro, cinema, musei, librerie, scuole e luoghi d’incontro per giovani di tutte le età, centri di assistenza sanitaria dove rifioriranno piccole realtà artigianali. Mestieri antichi in via di estinzione, attività commerciali a misura d’uomo in base ai bisogni… Le piante, le riforme sulla sicurezza e i codici stradali o l’investimento nel verde su larga scala, da sole non salveranno Milano. Occorre la volontà collettiva di ripensare la città come forma civilizzata di comunità umana, in cui accogliere le complessità come opportunità di cambiamento per una città che trasforma le fragilità in punti di forza e rende possibile il riscatto sociale e culturale di tutti. Questa è la mia utopia. Magari faziosa, banale, ma i sogni sono desideri, e se sono condivisi possono davvero volgersi in realtà d’azione e cambiare il mondo. Lo dimostra la storia, plasmata nel bene e nel male da grandi utopie e idealità espresse da donne e uomini coraggiosi.
Jacqueline Ceresoli  Saggista, storica e critica dell’arte, vive e opera a Milano come docente universitaria e curatrice di mostre indipendente. Collabora a diverse testate di architettura e arte. Immagine di Fernando De Filippi
L’immagine in fondo è di Fernando De Filippi