novembre 2024
AAA CERCASI UTOPIE
DA ABITARE
di Jacqueline Ceresoli
Milano
sì
è
classificata
prima
nell’indagine
annuale
sulla
qualità
della
vita
realizzata
Italia-
Oggi
e
ItalCommunications
in
collaborazione
con
l’Università
la
Sapienza
di
Roma,
e
siamo
(quasi)
tutti
contenti
,
ma
a
giudicare
dall’aumento
della
povertà,
violenza
di
genere,
emarginazione
sociale
di
immigrati
in
strada
o
senza
tetto
accampati
qua
e
là
in
centro
e
periferia,
più
o
meno
invisibili,
mi
viene qualche dubbio!
E
di
questi
“fantasmi”
fino
a
quando
non
diventano
protagonisti
di
fatti
di
cronaca
nera
non
se
ne
parla,
allora
sono
‘mostri’
in
prima
pagina,
perché
scippano,
rubano,
violentano
una
malcapitata
o
molestano
qualcuno
sotto
l’effetto
di
droghe
o
alcool
per
sopravvivere
al
proprio
degrado
esistenziale.
Così
nel
flusso
medico
di
ordinaria
follia
quotidiana,
questi
fatti
di
delinquenza
urbana,
comune
a
molte
città,
alimentano
razzismo,
cinismo
e
manifestano
il
disagio
di
una
società
malata;
siamo
scuri allora di stare proprio tutti bene?
Che
dire
poi
del
degrado
delle
zone
di
Milano
intorno
San
Siro,
Giambellino,
Rogoredo,
Corvetto
e
altre
periferie,
dove
tra
microdelinquenza,
spaccio
e
discariche
abusive
tra
piazzale
Selinunte
e
Segesta,
fermata
del
metrò
Lilla,
succede
di
tutto
e
di
più,
e
proprio
in
queste
aree
fuori
dai
bagliori
della
splendente
e
illuminata
city
instagrammata
da
social
network
addicted
di
ogni
età,
ai
margini
dei
centri
della
movida
milanese,
anche
se
da
anni
i
residenti
denunciano
un
malessere
sociale
endemico,
tutto
resta
uguale,
assistiamo
a
una
perdita generale di identità, e più o meno tutti fingiamo di non vedere.
Fatta
tale
premessa
possiamo
davvero
parlare
di
qualità
di
vita
a
Milano?
Milano
ha
problemi
di
sicurezza,
di
illuminazione
nelle
periferie,
gli
abitanti
sono
per
lo
più
single,
e
la
maggioranza
dei
cittadini
è
over
sessanta.
Si
aggiunga
che
non
è
attrattiva
per
i
giovani
causa
caro
vita,
e
l’emergenza
abitativa
è
una
spina
nel
fianco
per
tutte
le
fasce
di
età
a
reddito
medio-basso.
Queste
sono
problematiche
sociali
offuscate
da
immagini
“facciatiste”
con
paesaggi
urbani
accattivanti
di
nuove
aeree
residenziali
sbocciate
come
papaveri
all’ombra
di
speculazioni
immobiliari
nei
luoghi
più
ameni
della
città,
diventati
‘ghetti’
di
lusso
per una casta elitaria.
Ma
la
domanda
è
di
quale
Milano
stiamo
parlando
e,
soprattutto,
come
la immaginiamo nel futuro?
Pensiamo
a
quella
mondana,
da
manifesto
cinematografico,
scenografica,
totemica
e
futurista,
che
sale,
immortalata
dai
social-
media,
oppure
vediamo
anche
il
suo
lato
B,
dove
tutto
è
al
di
sotto
della
soglia
minima
di
povertà
e
dignità
umana,
abitata
dal
degrado
e
della
desolazione
come,
per
esempio,
davanti
e
nelle
vie
laterali
attorno alla Stazione Centrale?
Di
quale
Milano
stiamo
parlando,
quella
dei
borghesi
o
dei
vip
parcheggiati
nei
loro
distretti
confortevoli,
dove
non
si
incontrano
volti
sofferenti
di
stranieri,
o
la
casta
di
poveri
non
accettati
da
nessuna
parte, mentre quelli ricchi sono benvenuti ovunque?
Milano
è
città
specchio
di
molte
altre
città,
dove
una
parte
di
umanità
fantasma,
disperata
e
rassegnata
a
una
vita
senza
speranza
non
fa
testo
perché
non
fa
reddito
o
non
produce
una
immagine
vincente,
non consuma divertimenti, non è elegante ed è un peso inutile.
Che
fare
dunque
se
non
condividere
utopie
possibili
di
appartenere
tutti
alla
stessa
grande
Milano
da
immaginare
come
una
comunità
solidale,
pronta
a
integrare
chi
di
possibilità
non
ha
mai
avute
e
ha
solo
bisogno
di
fiducia,
rispetto,
di
un
posto
dignitoso
dove
stare,
un
lavoro
sicuro
per
ricominciare?
La
società
italiana
è
profondamente
cambiata
negli
ultimi
anni,
la
ripartizione
tra
borghesi
e
proletariato,
come
a
suggerito
Max
Weber
si
è
dissolta
dal
1999,
con
la
globalizzazione
e
il
neoliberismo,
quando
Zygmunt
Bauman
con
il
suo
libro
“Società
liquida”,
ha
compreso
che
nonostante
precariato,
instabilità,
immigrazione;
tutti
aspirano
a
possedere
almeno
un
telefonino,
una
casa,
l’auto,
le
vacanze
e
capi
o
accessori
firmati,
lussi
ambiti
da
più
o
meno
tutti
i
ragazzi
di
periferia
che
venderebbero
droghe
ai
propri
coetanei
o
la
sorella
al
miglior
offerente
pur
di
indossare
un
paio
di
scarpe Nike o un jeans griffato.
Dagli
anni
Ottanta
i
meccanismi
della
mobilità
sociale
si
sono
inceppati
e
le
differenze
tra
i
sempre
più
ricchi
e
i
sempre
più
poveri
sono
abissali.
In
pratica
tutti
possono
studiare,
ma
nella
realtà
dei
fatti
mantenere
un
figlio
all’università
per
genitori
operai
o
artigiani
in
una
città
cara
come
Milano,
è
un
impegno
assai
gravoso
per
non
dire
impossibile.
Si
aggiunga
la
problematica
della
mancanza
di
lavoro
per
i
giovani
figli
neolaureati
di
‘neoproletari’,
spesso
costretti
a
ripiegare
su
lavori
lontani
dalle
loro
competenze
e
aspettative,
precari
o
in
“nero”
per
sbarcare
il
lunario
e
non
dipendere
dai
propri
genitori
già
economicamente
dissanguati,
aumentando
così
la
sacca
dell’illegalità
e
della
frustrazione
sociale
di
una
generazione
rassegnata
al
peggio,
che
non
desidera
nulla
se
non
la
sicurezza
di
un
posto
se
possibile
statale
,
che
non
riesce
a
costruirsi
una
carriera
professionale,
tantomeno
una
famiglia
se
non
è
figlio
di
avvocati,
notai,
medici,
magistrati,
imprenditori, facoltosi imprenditori o politici.
Per
migliore
la
propria
condizione
di
vita
non
basta
più
investire
nello
studio,
conquistare
una
laurea,
contano
di
più
le
relazioni
sociali,
prevale
il
clientelismo
(alias
familismo)
basato
su
favoritismi
(soprattutto
in
campo
politico,
avvocati
e
magistrati
o
medici),
in
nome
di
un
reciproco
interesse,
fattori
di
ceto
sociale
che
prevalgono
sul
merito.
E
in
questo
desolante
scenario
non
è
un
caso
vedere
tanti
giovani
emigrare
all’estero,
dove
sei
valutato
per
ciò
che
sai
fare
e
rispettato
per le tue prestazioni professionali
È
inutile
ripetere
il
tantra
che
la
crescita
delle
disuguaglianze
e
delle
tante
classi
sociali,
favorisce
il
divario
economico
tra
il
nord
e
il
sud
d’Italia
e
nel
mondo,
fattori
che
sappiamo
stanno
minando
l’economia,
la
politica
e
la
società,
mentre
la
fiducia
nel
futuro
langue
e
sbiadisce
l’utopia
della
fratellanza:
cioè
la
più
sfuggente
e
difficile
dei
tre
comandamenti
della
Rivoluzione
francese,
da
condividere
in
una
società priva di valori umani, in cui la vita vale il costo di un’auricolare.
La
mia
utopia
è
condividere
presto
con
tutti
la
parità
di
genere
che
di
sicuro
non
basta
per
spiegare
le
differenze,
ma
incominciare
a
vedere
molte
donne
laureate
nelle
materie
scientifiche
ed
economiche
di
diverse
estrazioni
sociali
o
etnie
raggiungere
un
salario
equo,
libere
di
essere
madri
senza
rinunciare
al
proprio
lavoro
per
necessità
di
gestione
famigliare
a
costi
contenuti,
occupare
presto
posti
chiave
di
potere
nell’economia,
trovare
più
amministratrici
nelle
aziende
e
nelle
banche,
nelle
società
pubbliche
e
private…
Allora
forse
qualcosa
potrebbe cambiare.
L’
utopia
più
coinvolgente,
universale
di
tutti
i
tempi
e
per
la
quale
vale
la
pena
anche
morire,
è
e
sarà
sempre
la
Libertà,
che
però
è
incompleta
senza
giustizia
sociale,
senza
il
benessere
collettivo
e
non
individuale,
in
cui
il
noi
prevalga
sempre
sul
mio
e
il
tuo
a
favore
del
nostro.
Raggiungere
tale
obiettivo
comporta
rinunciare
tutti
a
qualcosa
per
stare
meglio
insieme
domani,
ma
a
un
tale
cambiamento
epocale
in
realtà
non
siamo
pronti,
non
sembriamo
volerlo
né
dimostriamo
di
crederci
più
di
tanto.
A
parole
siamo
tutti
solidali
con
i
più
deboli,
filoambientalisti,
filantropi,
ma
nei
fatti
facciamo
di
tutto
per
continuare
a
mantenere
i
piccoli
o
grandi
privilegi
che
abbiamo
conquistato.
Se
il
neoliberalismo
è
un
fallimento
conclamato,
come
dice
Joseph
Stigliz,
premio
Nobel
per
l’economia
nel
2001,
Chief
economist
alla
Banca
mondiale,
allora
qual
è
la
strada
per
la
liberà
e
per
una
società
più giusta?
In
primis
dovremmo
cambiare
i
nostri
valori,
comportamenti
e
obiettivi,
ma
non
siamo
più
capaci
di
rivolte
sociali,
ci
limitiamo
a
manifestazioni
in
piazza
di
qualche
ora
e
poi
tutto
finisce
lì,
tra
un
Instagram e l’altro, perché non ci impegniamo abbastanza.
Il
consumismo
ha
anestetizzato
i
grandi
desideri
di
cambiare
i
nostri
stili
di
vita.
Abbiamo
barattato
la
nostra
sicurezza
con
l’infelicità
degli
altri.
Manca
l’utopia
di
liberarci
della
povertà,
di
realizzare
la
giustizia
sociale.
Ognuno
rivendica
diritti
ma
non
riconosce
i
propri
doveri
nei
confronti
degli
altri.
E
ci
accontentiamo
di
una
fragile
sicurezza
quotidiana:
frigorifero
pieno,
cellulare
attivo,
auto
parcheggiata
possibilmente
sotto
casa
(meglio
se
di
proprietà)
e…
basta
così!
Navighiamo
a
vista
nella
mediocrità,
e
in
questo
scenario
desolante
nessuno può dichiararsi innocente.
Pochi
scendono
in
strada
per
giorni,
mesi
o
anni
per
sostenere
una
rivolta
sociale
e
culturale,
con
il
fine
di
garantire
sicurezze
a
tutti.
Crediamo
e
siamo
fedeli
al
consumismo
convulsivo
che
ha
sedato
gli
animi.
Abbiamo
scambiato
il
benessere
personale
per
un
valore
universale.
Milano
con
il
Salone
del
Mobile,
per
una
settimana
si
trasforma
in
un
display
per
happening
collettivi,
dove
condividere
divertimento,
movida
e
vacuità,
che
riassume
in
parte
l’energia
creativa
di
una
città
sempre
più
votata
al
“mordi
e
fuggi”
turistico,
sempre
meno
interessata
alla
qualità della vita dei cittadini.
I
residenti
nei
quartieri
della
movida,
infastiditi
da
caos
e
abusi
di
spazio
pubblico,
reclamano
ma
poi
si
rassegnano,
perché
non
hanno
voce
in
capitolo
e
non
fanno
testo.
Vince
il
divertimento
che
produce
denaro
e
l’immagine
di
una
società
effimera,
votata
al
vuoto
esistenziale.
Dobbiamo
capire
qual
è
il
patrimonio
di
Milano,
quello
dei
capitali e della finanza o quello rappresentato dai suoi cittadini?
Vince
il
capitale
dei
liberalisti
–individualisti
che
puntando
su
eventi
performativi fini a sé stessi, d’immagine da postare in rete.
Milano
è
pragmatica,
laboriosa,
inclusiva,
più
vicina
all’Europa
rispetto
a
Roma.
E
trova
nell’arte
del
far
bene
una
sua
identità
precisa,
perfino
sul
piano
della
cultura
dell’effimero.
Questo
è
certamente
un
valore,
ma
non
basta;
serve
una
regia,
un
patto
condiviso
tra
governanti
e
cittadini sulla vivibilità di Milano a passo d’uomo, civile e responsabile.
Milano
oggi
è
problematica
e
complessa
come
lo
sono
tutte
le
metropoli
europee.
Va
sfogliata
come
un
libro
che
raccoglie
mille
racconti,
ma
dove
non
tutte
le
storie
sono
affascinanti!
Milano
è
aperta
per
sua
natura
e
cultura
all’imprevedibilità
dei
flussi
di
vita,
ma
pecca
di
superficialità.
Circa
il
verde
(vedi
l’esempio
di
Biocittà),
Milano
si
sta
impegnando
moltissimo,
ma
può
fare
meglio
e
includere
più
piste
ciclabili
che
dovrebbero
connettere
tra
loro
le
9
municipalità
di
Milano.
Gli
alberi
fanno
ombra,
assorbono
l’acqua
e
ripuliscono
l’aria,
si
piantano,
ma
sono
ancora
troppo
pochi
e
concentrati
in
alcune
zone
della
città,
per
molti
è
più
proficuo
investire
nelle
speculazioni
immobiliari
di
privati,
intanto
chi
governa
la
città
non
risponde
adeguatamente
alla
domanda
di
abitazioni
a
prezzi
moderati
calmierati,
accessibili
a
giovani
e
a
classi
meno abbienti.
Sull’inquinamento
e
congestione
del
traffico,
micro
delinquenza
a
parte
(problema
di
molte
grandi
città),
manca
una
strategia
condivisa,
una
visione
d’insieme
(di
destra
o
di
sinistra)
preparata
ad
agire
per
il
bene
collettivo
e
capace
di
coordinare
con
intelligenza
domanda
e
offerta
di
servizi tra le diverse zone.
Dall’Expo
del
2015
Milano
ha
puntato
più
sulla
speculazione
immobiliare
che
sul
miglioramento
della
qualità
sociale,
della
salute
e
vivibilità
urbana.
Milano
non
accontenta
tutti
e
mai
lo
farà,
segue
un
modello
di
democrazia
imperfetta,
e
tutto
sommato
l’offerta
culturale
è
soddisfacente,
ma
bisognerebbe
fare
meglio
per
quanto
riguarda
integrazione
sociale,
scuole
e
sanità.
Si
dovrebbe
rafforzare
un
sistema
di
reti
sociali
e
norme
condivise
basato
sulla
fiducia
e
reciprocità
tra
cittadino e istituzioni.
La
vita
in
certe
periferie
male
o
poco
illuminate,
non
ancora
servite
dalle
linee
della
metropolitana
non
è
facile,
e
anche
lì
l’affitto
degli
appartamenti
più
o
meno
grandi,
risulta
comunque
fuori
scala
in
base
ai
disagi
dell’area
decentrata.
Milano
è
un
grande
“paesotto”
se
paragonata
a
Berlino,
Parigi
o
a
quella
Roma
che
Fellini
camminando
per
i
viali
dell’EUR
chiamava
“placenta
del
mondo”,
ma
agli
stranieri
piace
proprio
per
questo,
affascinati
dai
suoi
quartieri,
con
case
tutte
diverse,
dove
l’anima
popolare
è
ancora
componente
identitaria
e
la
solidarietà
sociale
un
valore
aggiunto
non
scontato,
al
contrario
della
gentrificazione imperante nel centro storico,
Nei
quartieri
funzionano
in
maniera
imperfetta
piccole
e
grandi
associazioni
di
volontariato,
mirate
all’assistenza
sanitaria,
al
sostegno
sociale
e
alla
gestione
delle
biblioteche
rionali,
dove
lo
straordinario
“capitale
umano”
del
volontariato
opera
con
passione,
determinazione
e
pragmatismo
generativo,
trovando
sempre
soluzioni
a
vecchi
e
nuovi
problemi.
Immagino
Milano
nel
2030,
più
verde,
più
lenta.
Sarà
una
grande
comunità
dove
vivere
serenamente,
pensata
per
essere
attraversata
comodamente
a
piedi
o
in
bicicletta,
con
il
centro
storico
(asse
da
piazza
Duomo-
distretto
la
Grande
Brera,
compreso
il
Castello
fino
a
piazza
Gae
Aulenti)
completamente
pedonale,
con
moltissimi
alberi
e
meno
automobili
parcheggiate
lungo
i
marciapiedi,
moltissime
piste
ciclabili
a
connettere
tra
loro
le
9
Zone
della
città.
Mi
immagino
le
piazze
delle
periferie
liberate
da
auto
e
discariche
abusive,
traversate
a
piedi
o
pedalando,
trovando
lungo
il
cammino
aree
di
sosta
pubbliche,
acqua,
panchine,
giardini,
parchi
giochi
per
bambini,
e
soprattutto
all’orizzonte solo mezzi leggeri, tutti elettrici!
Ma
come
diceva
il
professor
Albert
Sorel
in
Jules
et
Jim
di
François
Truffaut,
“l’avvenire
è
dei
curiosi
di
professione”,
e
ciò
che
accadrà
lo
vedremo soltanto vivendo.
Vincerà
lo
“spirito
creativo”,
il
pragmatismo
imprenditoriale
di
questa
città
che
sale,
non
più
morale
bensì
commerciale,
vacua
e
performativa,
frivola
e
inquinata
malgrado
le
sue
eccellenti
università,
oppure
vedremo
una
città
verde,
cuore
pulsante
di
oggi
per
domani
e
con soluzioni abitative attrattive per i giovani?
Milano
riuscirà
a
prendersi
cura
dei
più
fragili
se
avrà
davvero
il
coraggio
di
attuare
un
cambio
di
passo,
se
riuscirà
a
proporre
progetti
“intelligenti”
e
sensibili
alle
marginalità,
se
ascolterà
imprenditori
e
politici illuminati capaci di rispondere a problematiche complesse…
Immagino
gli
architetti
e
urbanisti
uniti
alle
imprese
di
costruttori
onesti
contro
mafie
e
lobby,
come
agenti
a
servizio
dei
cittadini
e
della
città,
capaci
di
innescare
processi
evolutivi
sensibili
per
rispondere
a
nuove
esigenze
sociali,
cooperando
con
molteplici
discipline
e
settori
scientifici.
E
penso
anche
a
una
Milano
meglio
illuminata,
quindi
più
sicura
oltre
che
più
bella,
con
lampioni
e
punti
luce
come
strumento
di
conoscenza
e
monitoraggio
sulle
problematiche
della
città,
come
quelli
studiati
al
Senseable
City
Lab
di
Carlo
Ratti,
architetto
e
ingegnere
presso
il
MIT
(Massachusetts
Institute
of
Technology)
di
Boston,
un
laboratorio
dove
si
fa
ricerca
e
si
sperimentano
nuove
tecnologie
per
trasformare
le
città
in
luoghi
sempre
più
vivibili
e
green.
Vorrei
non
sprecare
energia,
non
illuminare
in
aria
e
a
vuoto,ma
avere
lampioni
o
una
illuminazione
LED
dotata
di
sistemi
capaci
di
controllare
l’intensità
della
luce
zona
per
zona, con sistemi multipli.
Cosa
mi
manca
di
più?
Mi
manca
l’immaginario
collettivo
di
una
Milano
accogliente,
che
mette
al
primo
posto
l’arte
come
premessa
di
una
comunità
civile,
meno
ipocrita
e
più
etica.
pronta
a
lottare
per
una
democrazia
economica
che
mette
da
parte
cinismo
e
individualismo.
Non
siamo
educati
alla
“res
publica”,
non
condividiamo
il
desiderio
di
vivere
meglio,
tutti
assieme
in
modo
solidale.
Vorrei
condividere
con
le
nuove
generazioni
la
sfida
di
rinunciare
alla
densità
dei
corpi
in
alcune
aree
della
città
in
favore
dell’intensità
di
relazioni
umane
e
conoscenza
di culture altre.
Ciascuno
pensa
alla
sua
Milano
in
maniera
diversa
che
però
non
è
mai
nostra.
Fino
a
quando
non
avremo
un
orizzonte
comune
di
vita
in
città,
abitata
da
persone
con
origini,
cultura,
lingue,
tradizioni
e
aspettative
differenti,
uniti
però
dall’idea
di
essere
comunità,
nulla
muterà
realmente.
Invecchieremo
nel
“brodo
primordiale”
del
nostro
cinismo.
Intanto
come
naufraghi
continueremo
a
vivere
tra
una
barriera
d’asfalto
e
l’altra,
cemento
e
foreste
di
grattacieli
che
consumano
ettari
di suolo per il benessere di pochi eletti.
Immagino
una
Milano
in
corsa
verso
uno
sviluppo
urbano
sostenibile,
in
cui
i
quartieri
diventeranno
centri
polifunzionali
autonomi,
dotati
di
parco,
teatro,
cinema,
musei,
librerie,
scuole
e
luoghi
d’incontro
per
giovani
di
tutte
le
età,
centri
di
assistenza
sanitaria
dove
rifioriranno
piccole
realtà
artigianali.
Mestieri
antichi
in
via
di
estinzione,
attività
commerciali a misura d’uomo in base ai bisogni…
Le
piante,
le
riforme
sulla
sicurezza
e
i
codici
stradali
o
l’investimento
nel
verde
su
larga
scala,
da
sole
non
salveranno
Milano.
Occorre
la
volontà
collettiva
di
ripensare
la
città
come
forma
civilizzata
di
comunità
umana,
in
cui
accogliere
le
complessità
come
opportunità
di
cambiamento
per
una
città
che
trasforma
le
fragilità
in
punti
di
forza
e
rende possibile il riscatto sociale e culturale di tutti.
Questa
è
la
mia
utopia.
Magari
faziosa,
banale,
ma
i
sogni
sono
desideri,
e
se
sono
condivisi
possono
davvero
volgersi
in
realtà
d’azione
e
cambiare
il
mondo.
Lo
dimostra
la
storia,
plasmata
nel
bene
e
nel
male
da
grandi
utopie
e
idealità
espresse
da
donne
e
uomini
coraggiosi.
Le immagini sono
di Fernando De Filippi