numero

novembre 2024

RITORNO AL REALE

di Stefano Pizzi Superata la stagione postmoderna, che comunque in ambito artistico visivo aveva promosso positivamente il recupero delle pratiche artistiche più legate alla tradizione espressiva dopo anni di concettuale, nonché il rinnovamento di quelle artigianali riacquisendo gli archetipi delle nostre territorialità, viviamo da anni in un limbo in cui la produzione neoconcettuale, ipertecnologica e globalizzata caratterizza il sistema dell’arte contemporanea. Il distacco dalle questioni sociali, nonostante qualche tentativo più liberal che radical di prendere posizione rispetto a guerre, fame e miserie varie, e naturalmente dal grande pubblico sempre più sconcertato a fronte di esiti estetici mediati da una serie di curatori i cui indirizzi vertono generalmente a una revisione della storia criminalizzante l’occidente per il colonialismo, la patriarcalità, il razzismo e le discriminazioni femminili e di genere. Per chi ancora non ne fosse al corrente stiamo vivendo l’epoca altermoderna, così battezzata dal suo teorico Nicolas Bourriaud, nella quale le certezze del moderno e le incertezze della postmodernità vengono spazzate via dall’assioma che il vero non parte dalla lettura storica ma bensì da quella antropologica. I primi attori di questo mutamento sarebbero alcuni artisti visivi in quanto ricercatori di una nuova modernità, scollata dall’imperialismo capitalistico occidentale e afferenti a un processo postcolonialista di creolizzazione, determinato da un nomadismo culturale che rispetta e si integra con i saperi altri dando luogo a una differente globalizzazione. In ambito estetico, gli altermodernisti, si caratterizzano sia per uno smodato, quanto diffuso, uso delle nuove tecnologie; sia per una rivisitazione delle espressioni più primitive negli ambiti della pittura dipinta e della scultura scolpita o assemblata con materiali poveri. A fronte di questa situazione, imperante ormai da più di un decennio, preceduta per chi se lo fosse scordato dalla stagione “relazionale” teorizzata sempre da Bourriaud, che seguiva i periodi “neo- concettuali” e “post-umani” consumatisi negli anni novanta, risulta difficile per la maggior parte degli operatori delle arti visive, autori, teorici, mercanti, collezionisti e attori vari, riconoscersi o condividere delle linee di tendenza che connotano ormai solo le grandi rassegne internazionali ma non trovano un riscontro reale nei contesti sociali di ogni continente. Insomma, la circostanza purtroppo non è felice in quanto trattasi di una realtà ormai stabilizzata, mediatizzata, sostenuta e sfacciatamente ostentata come avanguardia ma che di innovativo, sia esteticamente che teoricamente, nulla manifesta se non la vuotezza etica e morale che la caratterizza. Personalmente ritengo che la causa primaria di questa condizione vada ricercata non tanto nel grande mutamento avvenuto nel mondo dell’arte, allorché si è fatto sistema, quanto nell’involuzione della figura dell’artista d’avanguardia nel contesto sociale. I pregressi di questa condizione li troviamo negli anni ‘70 che sono segnati internazionalmente da tre distinte aree di ricerca: quella Concettuale, quella della Post-Astrazione e quella della Nuova Figurazione. All’interno di queste nascono e si sviluppano diverse tendenze tra le quali l’Arte Povera, la Body-Art, la Poesia Visiva, la Nuova Scrittura, la Pittura Analitica o Pittura-Pittura e la Nuova Figurazione dell’Impegno. Ebbene ma cosa contraddistingue queste esperienze dalle avanguardie che le hanno precedute? (Identificando come ultima delle quali, quella delle Nouvelles Tendences che operava nell’ambito programmatico, cinetico e percettivo.) La mancanza di teorizzazione del proprio operato. Gli artisti non discutono più tra di loro, non formulano apparati di pensiero e prende via, via sempre più piede una nuova figura di critico che teorizza e promuove questa o quella corrente espressiva in determinati spazi espositivi pubblici e privati sostenuta da alcune riviste di settore, al fine di porre le basi di un circuito che nel corso degli anni ’80 diventerà poi sistema. Paradossalmente, in particolar modo nel nostro Paese, l’unica tendenza che veniva considerata dalle altre la più retrograda dal punto di vista estetico ma che invece ha partorito una precisa linea di pensiero e di azione, al passo con i tempi e le rivendicazioni sociali, credo fermamente sia stata quella della Nuova Figurazione dell’Impegno, artefice di un attivismo visivo le cui poetiche diventavano strumenti di cambiamento e resistenza verso un potere politico decisamente reazionario. Ecco, io credo che oggi bisognerebbe operare teoricamente e visivamente ponendosi su queste tracce sviluppando delle poetiche di ritorno al reale, non solo perché in Italia e altrove gli attuali governi sono molto peggio di quelli degli anni ’70, ma anche e soprattutto per dare una svolta a una produzione globalizzata ignara delle proprie origini storiche e territoriali, mirante esclusivamente al successo e al denaro al pari di ogni impresa strutturale. Naturalmente detta azione non può svilupparsi unicamente in circuiti underground, ma deve mirare a diventare propulsiva negli enti territoriali, civici, regionali, nazionali e internazionali, nonché nelle relative forze politiche, utilizzando ca va sans dire le nuove tecnologie promulgando un messaggio che venga raccolto non solo da un pubblico specializzato ma dalla più parte dei cittadini di ogni dove. E’ assolutamente deleteria inoltre, quanto impropria, la politica adottata in diverse città, ree di deficit nei confronti dei vari settori della produzione artistica attuale, di sviluppare il fenomeno modaiolo della street-art, in primo luogo perché non contrasta minimamente il fenomeno delle cosiddette tags e, a seguire, perché gli autori degli anche pregevoli decori murali, per la più parte, non hanno un linguaggio univoco e non sono presenti nel sistema dell’arte contemporanea e tampoco nel suo dibattito. Relativamente al “che fare?”, soprattutto a casa nostra, sarei propenso per prima cosa, mea culpa è da anni che ci sto pensando, a organizzare una conferenza nazionale di produzione, magari a Brera o alla Permanente: l’ultima, a cura della Federazione Nazionale Lavoratori delle Arti Visive CGIL, fu nel 1979 in quel di Prato cui parteciparono quasi tutti gli attori dell’allora mondo dell’arte. A seguire non sarebbe poi male, vista l’attenzione che i governi centrale e territoriali ci dedicano, riesumare le spoglie del Sindacato degli Artisti e volgerne l’azione a favore delle questioni più cogenti. Anche la promozione di dibattiti in merito a quanto sopra, sia alla Casa della Cultura che al Centro Internazionale di Brera, potrebbe risultare buona premessa per il coinvolgimento delle nuove generazioni, sempre più volte a considerare l’arte una professione e non una passione, e quindi a un ricambio di figure in un’area oggi considerata antagonista, anche perché quelle attuali, in primis quella di chi scrive, appartengono ormai alla confraternita dei vecchi babbioni che benchè ancora attivi sono alquanto stancucci.

riContemporaneo.org | opinioni, polemiche, proposte sull’arte contemporanea

Stefano Pizzi  Pavia 1955, Pittore, ha studiato al Liceo Artistico e all’Accademia di Brera a Milano, della quale è stato Titolare di Pittura, Responsabile Relazioni Esterne e Vicedirettore. Animatore di istanze culturali e interventi nel sociale, conduce una costante attività espositiva attraverso mostre e rassegne nazionali ed internazionali. 15 | © blogMagazine pensato, realizzato e pubblicato in rete da Giorgio Seveso  dal 2011   |    Codice ISSN 2239-0235 |
S.Pizzi, Eruzione, 2024 S.Pizzi, Colibrì, 2024
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polemiche e proposte sull’arte contemporanea

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novembre 2024

RITORNO AL REALE

di Stefano Pizzi Superata la stagione postmoderna, che comunque in ambito artistico visivo aveva promosso positivamente il recupero delle pratiche artistiche più legate alla tradizione espressiva dopo anni di concettuale, nonché il rinnovamento di quelle artigianali riacquisendo gli archetipi delle nostre territorialità, viviamo da anni in un limbo in cui la produzione neoconcettuale, ipertecnologica e globalizzata caratterizza il sistema dell’arte contemporanea. Il distacco dalle questioni sociali, nonostante qualche tentativo più liberal che radical di prendere posizione rispetto a guerre, fame e miserie varie, e naturalmente dal grande pubblico sempre più sconcertato a fronte di esiti estetici mediati da una serie di curatori i cui indirizzi vertono generalmente a una revisione della storia criminalizzante l’occidente per il colonialismo, la patriarcalità, il razzismo e le discriminazioni femminili e di genere. Per chi ancora non ne fosse al corrente stiamo vivendo l’epoca altermoderna, così battezzata dal suo teorico Nicolas Bourriaud, nella quale le certezze del moderno e le incertezze della postmodernità vengono spazzate via dall’assioma che il vero non parte dalla lettura storica ma bensì da quella antropologica. I primi attori di questo mutamento sarebbero alcuni artisti visivi in quanto ricercatori di una nuova modernità, scollata dall’imperialismo capitalistico occidentale e afferenti a un processo postcolonialista di creolizzazione, determinato da un nomadismo culturale che rispetta e si integra con i saperi altri dando luogo a una differente globalizzazione. In ambito estetico, gli altermodernisti, si caratterizzano sia per uno smodato, quanto diffuso, uso delle nuove tecnologie; sia per una rivisitazione delle espressioni più primitive negli ambiti della pittura dipinta e della scultura scolpita o assemblata con materiali poveri. A fronte di questa situazione, imperante ormai da più di un decennio, preceduta per chi se lo fosse scordato dalla stagione “relazionale” teorizzata sempre da Bourriaud, che seguiva i periodi “neo- concettuali” e “post-umani” consumatisi negli anni novanta, risulta difficile per la maggior parte degli operatori delle arti visive, autori, teorici, mercanti, collezionisti e attori vari, riconoscersi o condividere delle linee di tendenza che connotano ormai solo le grandi rassegne internazionali ma non trovano un riscontro reale nei contesti sociali di ogni continente. Insomma, la circostanza purtroppo non è felice in quanto trattasi di una realtà ormai stabilizzata, mediatizzata, sostenuta e sfacciatamente ostentata come avanguardia ma che di innovativo, sia esteticamente che teoricamente, nulla manifesta se non la vuotezza etica e morale che la caratterizza. Personalmente ritengo che la causa primaria di questa condizione vada ricercata non tanto nel grande mutamento avvenuto nel mondo dell’arte, allorché si è fatto sistema, quanto nell’involuzione della figura dell’artista d’avanguardia nel contesto sociale. I pregressi di questa condizione li troviamo negli anni ‘70 che sono segnati internazionalmente da tre distinte aree di ricerca: quella Concettuale, quella della Post-Astrazione e quella della Nuova Figurazione. All’interno di queste nascono e si sviluppano diverse tendenze tra le quali l’Arte Povera, la Body-Art, la Poesia Visiva, la Nuova Scrittura, la Pittura Analitica o Pittura-Pittura e la Nuova Figurazione dell’Impegno. Ebbene ma cosa contraddistingue queste esperienze dalle avanguardie che le hanno precedute? (Identificando come ultima delle quali, quella delle Nouvelles Tendences che operava nell’ambito programmatico, cinetico e percettivo.) La mancanza di teorizzazione del proprio operato. Gli artisti non discutono più tra di loro, non formulano apparati di pensiero e prende via, via sempre più piede una nuova figura di critico che teorizza e promuove questa o quella corrente espressiva in determinati spazi espositivi pubblici e privati sostenuta da alcune riviste di settore, al fine di porre le basi di un circuito che nel corso degli anni ’80 diventerà poi sistema. Paradossalmente, in particolar modo nel nostro Paese, l’unica tendenza che veniva considerata dalle altre la più retrograda dal punto di vista estetico ma che invece ha partorito una precisa linea di pensiero e di azione, al passo con i tempi e le rivendicazioni sociali, credo fermamente sia stata quella della Nuova Figurazione dell’Impegno, artefice di un attivismo visivo le cui poetiche diventavano strumenti di cambiamento e resistenza verso un potere politico decisamente reazionario. Ecco, io credo che oggi bisognerebbe operare teoricamente e visivamente ponendosi su queste tracce sviluppando delle poetiche di ritorno al reale, non solo perché in Italia e altrove gli attuali governi sono molto peggio di quelli degli anni ’70, ma anche e soprattutto per dare una svolta a una produzione globalizzata ignara delle proprie origini storiche e territoriali, mirante esclusivamente al successo e al denaro al pari di ogni impresa strutturale. Naturalmente detta azione non può svilupparsi unicamente in circuiti underground, ma deve mirare a diventare propulsiva negli enti territoriali, civici, regionali, nazionali e internazionali, nonché nelle relative forze politiche, utilizzando ca va sans dire le nuove tecnologie promulgando un messaggio che venga raccolto non solo da un pubblico specializzato ma dalla più parte dei cittadini di ogni dove. E’ assolutamente deleteria inoltre, quanto impropria, la politica adottata in diverse città, ree di deficit nei confronti dei vari settori della produzione artistica attuale, di sviluppare il fenomeno modaiolo della street-art, in primo luogo perché non contrasta minimamente il fenomeno delle cosiddette tags e, a seguire, perché gli autori degli anche pregevoli decori murali, per la più parte, non hanno un linguaggio univoco e non sono presenti nel sistema dell’arte contemporanea e tampoco nel suo dibattito. Relativamente al “che fare?”, soprattutto a casa nostra, sarei propenso per prima cosa, mea culpa è da anni che ci sto pensando, a organizzare una conferenza nazionale di produzione, magari a Brera o alla Permanente: l’ultima, a cura della Federazione Nazionale Lavoratori delle Arti Visive CGIL, fu nel 1979 in quel di Prato cui parteciparono quasi tutti gli attori dell’allora mondo dell’arte. A seguire non sarebbe poi male, vista l’attenzione che i governi centrale e territoriali ci dedicano, riesumare le spoglie del Sindacato degli Artisti e volgerne l’azione a favore delle questioni più cogenti. Anche la promozione di dibattiti in merito a quanto sopra, sia alla Casa della Cultura che al Centro Internazionale di Brera, potrebbe risultare buona premessa per il coinvolgimento delle nuove generazioni, sempre più volte a considerare l’arte una professione e non una passione, e quindi a un ricambio di figure in un’area oggi considerata antagonista, anche perché quelle attuali, in primis quella di chi scrive, appartengono ormai alla confraternita dei vecchi babbioni che benchè ancora attivi sono alquanto stancucci.
Stefano Pizzi  Pavia 1955, Pittore, ha studiato al Liceo Artistico e all’Accademia di Brera a Milano, della quale è stato Titolare di Pittura, Responsabile Relazioni Esterne e Vicedirettore. Animatore di istanze culturali e interventi nel sociale, conduce una costante attività espositiva attraverso mostre e rassegne nazionali ed internazionali. S.Pizzi, Eruzione, 2024 S.Pizzi, Colibrì, 2024