numero

novembre 2024

L’UTOPIA DELLA

STACCIONATA

di Nino Tricarico Nei primi anni ottanta, con amici pittori e critici d’arte, si parlava animatamente di neo informale. Sugli impianti di una pittura cara alla stagione artistica del dopoguerra. Ripensavamo, cioè, alla materia cromatica, carica di sensualità propria di Morlotti, a quella più espressiva di Moreni, al segno ideografico di Capogrossi o alle dilatazioni figurali di Treccani, al gesto di Fontana o al segno ribelle di un Vedova, fino a spingerci ai lirici per eccellenza quali Licini. Così dalle superfici delle tele iniziava a salire il respiro del grumo di colore, la libertà espressa dal gesto, come creazione dell’universo, e al tempo stesso, terrestre, primitivo, archetipo. A distanza di circa quarant’anni eccomi a ripensare alla domanda di allora: «Perché torno a chiedermi cerco nel colore l’amalgama della luce e dello spazio?». O meglio ancora: «Perché continuo ad insistere nel vano tentativo di afferrare, anche solo per un istante, la vibrante emozione dell’essere?». Sulla mia pittura scrivevo in altra occasione, e ponevo l’accento su un aspetto che ritengo determinante non tanto per l’ovvio riferimento all’espressività e all’immediatezza di un linguaggio di tradizione informale, quanto piuttosto per il ripensamento di quella tradizione particolare di luogo e di tempo. Da una parte la piccola patria lucana, legata a una memoria che mantiene un rapporto antico con l’universo, dall’altra la crisi attuale delle esperienze artistiche imposta dai modelli tecnologici dei media e dalla loro vocazione partecipativa più che conoscitiva. Da queste condizioni nasce spontanea la possibilità di reinventare il linguaggio informale secondo una particolare versione lirica, dove l’occasione conserva lo spazio di avventura che è proprio di ogni esperienza artistica, ma dove assai minore vantaggio rispetto alla tradizione informale è offerto al caso, all’impeto gestuale, ai valori di un impulso cinetico inconscio. Il registro secondo cui il linguaggio prende forma, è affidato al gioco degli accordi e delle corrispondenze, alle analogie, al ricorso delle rime interne, al persistere del rapporto tra fondo e presenza, allo stupore di parvenze nascenti, colte nell’atto del loro emergere. Un atteggiamento lirico, senza dubbio, e come tale estraneo al sistema degli automatismi. Direi calcolato come evento conoscitivo. Evento che, mentre conferma ciò che resiste dell’hegeliano “carattere di passato” dell’arte, ne attesta implicitamente il valore ontologico. Attesta una condizione generale dell’umano in quanto attualità dell’esserci e, nel caso specifico, in quanto immersione nella patria meridionale, vissuta come individuazione e assunzione di un limite. In un primo momento la coscienza del limite si esprime come margine dipinto del tessuto pittorico, magari sovrapposto due o tre volte quasi a suggerire la possibilità di sfogliare l’immagine e di verificarne il carattere illusorio. In un secondo momento il limite penetra nell’immagine assumendo la forma di uno steccato o staccionata: una sorta di limen o confine agreste, un margine oraziano in cui il lirismo della luce e spazio risiede nella natura. Questa coscienza del limite attesta che l’arte è una condizione esistenziale indeterminata che consente di trattenere il discorso al di qua di un esplicito processo astrattivo, senza aderire, tuttavia alla spazialità continua dell’espressionismo informale. I confini non sono casuali, bensì immanenti alla stessa volontà espressiva. Resta il fatto, tuttavia, che un ripiegamento lirico sulle radici più profonde della modernità è da ritenere una garanzia di civiltà culturale, più precisamente, nel senso eliotiano del termine, di classicità. La staccionata, questa versione agreste della siepe leopardiana costringe la tradizione dell’informale pittorico ad esprimersi nella forma del rapporto fra il limite e l’illimitato. Come dire tra la cultura e la natura, tra l’occasionale e il condizionato, tra l’esserci e l’essere. Lo steccato e la staccionata non sono più il diaframma che separa ciò che è qui da ciò che si espande oltre il limite; sono anche il momento paradossale in cui l’opera raggiunge il più fermo controllo dei suoi mezzi espressivi nella rappresentazione del limite stesso come schermo che rispecchia e misura i procedimenti proiettivi della coscienza, senza per questo nascondere il carattere enigmatico del rapporto uomo-natura, carattere che persiste al di fuori di proiezioni idilliche rassicuranti. La dissoluzione della staccionata, il senso, la coscienza, il desiderio dell’oltre si compie successivamente: diventa protezione di per essere quanto più è possibile felice.

riContemporaneo.org | opinioni, polemiche, proposte sull’arte contemporanea

14 | © blogMagazine pensato, realizzato e pubblicato in rete da Giorgio Seveso  dal 2011   |    Codice ISSN 2239-0235 |
Nino Tricarico  Potenza 1938, pittore e scultore italiano.  Nel 1957 a Napoli segue gli studi alla Facoltà di Chimica, contemporaneamente frequenta la cerchia di artisti raccolti intorno all'Accademia di Belle Arti. Sul finire degli anni 60 torna in Basilicata per stabilirsi a Potenza, e da allora espone in Italia e nel mondo. A partire dagli anni 80, insieme a Gerardo di Fiore, Errico Ruotolo, Massimo Bignardi e altri, ha fondato il gruppo del "Nuovo Lirismo".
Il triangolo della vita Il gioco ambiguo “Tornerà la tua infanzia e giocheremo ancora” Rainer Maria Rilke
© blogMagazine pubblicato in rete da Giorgio Seveso dal 2011 - Codice ISSN 2239-0235

polemiche e proposte sull’arte contemporanea

14
novembre 2024

L’UTOPIA DELLA

STACCIONATA

di Nino Tricarico Nei primi anni ottanta, con amici pittori e critici d’arte, si parlava animatamente di neo informale. Sugli impianti di una pittura cara alla stagione artistica del dopoguerra. Ripensavamo, cioè, alla materia cromatica, carica di sensualità propria di Morlotti, a quella più espressiva di Moreni, al segno ideografico di Capogrossi o alle dilatazioni figurali di Treccani, al gesto di Fontana o al segno ribelle di un Vedova, fino a spingerci ai lirici per eccellenza quali Licini. Così dalle superfici delle tele iniziava a salire il respiro del grumo di colore, la libertà espressa dal gesto, come creazione dell’universo, e al tempo stesso, terrestre, primitivo, archetipo. A distanza di circa quarant’anni eccomi a ripensare alla domanda di allora: «Perché torno a chiedermi cerco nel colore l’amalgama della luce e dello spazio?». O meglio ancora: «Perché continuo ad insistere nel vano tentativo di afferrare, anche solo per un istante, la vibrante emozione dell’essere?». Sulla mia pittura scrivevo in altra occasione, e ponevo l’accento su un aspetto che ritengo determinante non tanto per l’ovvio riferimento all’espressività e all’immediatezza di un linguaggio di tradizione informale, quanto piuttosto per il ripensamento di quella tradizione particolare di luogo e di tempo. Da una parte la piccola patria lucana, legata a una memoria che mantiene un rapporto antico con l’universo, dall’altra la crisi attuale delle esperienze artistiche imposta dai modelli tecnologici dei media e dalla loro vocazione partecipativa più che conoscitiva. Da queste condizioni nasce spontanea la possibilità di reinventare il linguaggio informale secondo una particolare versione lirica, dove l’occasione conserva lo spazio di avventura che è proprio di ogni esperienza artistica, ma dove assai minore vantaggio rispetto alla tradizione informale è offerto al caso, all’impeto gestuale, ai valori di un impulso cinetico inconscio. Il registro secondo cui il linguaggio prende forma, è affidato al gioco degli accordi e delle corrispondenze, alle analogie, al ricorso delle rime interne, al persistere del rapporto tra fondo e presenza, allo stupore di parvenze nascenti, colte nell’atto del loro emergere. Un atteggiamento lirico, senza dubbio, e come tale estraneo al sistema degli automatismi. Direi calcolato come evento conoscitivo. Evento che, mentre conferma ciò che resiste dell’hegeliano “carattere di passato” dell’arte, ne attesta implicitamente il valore ontologico. Attesta una condizione generale dell’umano in quanto attualità dell’esserci e, nel caso specifico, in quanto immersione nella patria meridionale, vissuta come individuazione e assunzione di un limite. In un primo momento la coscienza del limite si esprime come margine dipinto del tessuto pittorico, magari sovrapposto due o tre volte quasi a suggerire la possibilità di sfogliare l’immagine e di verificarne il carattere illusorio. In un secondo momento il limite penetra nell’immagine assumendo la forma di uno steccato o staccionata: una sorta di limen o confine agreste, un margine oraziano in cui il lirismo della luce e spazio risiede nella natura. Questa coscienza del limite attesta che l’arte è una condizione esistenziale indeterminata che consente di trattenere il discorso al di qua di un esplicito processo astrattivo, senza aderire, tuttavia alla spazialità continua dell’espressionismo informale. I confini non sono casuali, bensì immanenti alla stessa volontà espressiva. Resta il fatto, tuttavia, che un ripiegamento lirico sulle radici più profonde della modernità è da ritenere una garanzia di civiltà culturale, più precisamente, nel senso eliotiano del termine, di classicità. La staccionata, questa versione agreste della siepe leopardiana costringe la tradizione dell’informale pittorico ad esprimersi nella forma del rapporto fra il limite e l’illimitato. Come dire tra la cultura e la natura, tra l’occasionale e il condizionato, tra l’esserci e l’essere. Lo steccato e la staccionata non sono più il diaframma che separa ciò che è qui da ciò che si espande oltre il limite; sono anche il momento paradossale in cui l’opera raggiunge il più fermo controllo dei suoi mezzi espressivi nella rappresentazione del limite stesso come schermo che rispecchia e misura i procedimenti proiettivi della coscienza, senza per questo nascondere il carattere enigmatico del rapporto uomo-natura, carattere che persiste al di fuori di proiezioni idilliche rassicuranti. La dissoluzione della staccionata, il senso, la coscienza, il desiderio dell’oltre si compie successivamente: diventa protezione di per essere quanto più è possibile felice.
Nino Tricarico  Potenza 1938, pittore e scultore italiano.  Nel 1957 a Napoli segue gli studi alla Facoltà di Chimica, contemporaneamente frequenta la cerchia di artisti raccolti intorno all'Accademia di Belle Arti. Sul finire degli anni 60 torna in Basilicata per stabilirsi a Potenza, e da allora espone in Italia e nel mondo. A partire dagli anni 80, insieme a Gerardo di Fiore, Errico Ruotolo, Massimo Bignardi e altri, ha fondato il gruppo del "Nuovo Lirismo". Il triangolo della vita Il gioco ambiguo