Leggi... Leggi... Leggi... Leggi... Leggi... Leggi... Leggi... Qui trovi i numeri pregressi Leggi... Leggi... Leggi... Leggi... Leggi... Leggi... Aspetto il tuo intervento... Torna alla pagina principale... INTERVENTI Un Confronto di opinioni Il pulsante AGGIORNA Clicca spesso il pulsante Aggiorna del tuo navigatore per essere certo di vedere i testi aggiunti dalla tua ultima visita SOMMARIO   RIFLESSIONI, POLEMICHE, PROPOSTE DI ARTE CONTEMPORANEA                                                                      ALBERTO GARUTTI O DEL CONCETTUALE Considerazioni in chiusura della mostra che si è tenuta al PAC di Milano Si è chiusa il 3 febbbraio al PAC la mostra di Alberto Garutti dal titolo “DIDASCALIA/CAPTION”, curata da Paola Nicolin e Hans Ulrich Obrist. Estrapoliamo e presentiamo qui - da una più articolata discussione pubblicata sulla rivista Il Fotografo - due diversi giudizi sulla rassegna e sul senso complessivo della sua opera. “Libero battitore” dell’arte concettuale italiana, il lavoro di Garutti tende a innescare meccanismi di partecipazione e dialogo a più livelli con differenti tipologie di pubblico e con le istituzioni politiche ed economiche della società. Lo spettatore, soprattutto tramite i titoli e le didascalie,  è invitato a costruire nuove relazioni e percorsi tra opere, immagini e oggetti in esposizione. [1 - Stefania Biamonti]  La collocazione era perfetta. Sebbene non fosse stata originariamente concepita per quella sala, la serie di panchine con cane davanti alla grande vetrata del PAC riusciva nell’intento. E non era l’unica. Eppure la mia prima impressione era stata negativa. Appena entrata, quell’insieme di installazioni dall’aria enigmatica e talvolta di dubbio gusto mi aveva respinto, complice forse il mio scetticismo nei confronti delle retrospettive (detesto i greatest hits...) e soprattutto di quelle, come in parte questa, che riuniscono lavori e progetti pensati per ben altri spazi. Tuttavia una volta capito come affrontarlo, il meccanismo di interazione/partecipazione innescato dalle opere mi ha rapita. Sì, perché è proprio attorno alla dimensione relazionale che gravitava questa mostra, ramificandosi poi, a seconda dell’opera, in tutta una serie di livelli e sotto-livelli tematici. Un intento che ti costringeva a osservarle a lungo e a ritornare spesso sui tuoi passi per rileggere la didascalia, che, non a caso, si configurava come il propulsore dell’intera esposizione. Senza didascalia molte opere mi sarebbero infatti risultate inaccessibili, se non addirittura incompiute, visto che era solo la partecipazione dell’osservatore a dotarle di senso. Un senso non necessariamente uguale per tutti, ma funzionale a permettere l’attivazione di quella sorta di interazione dinamico-cognitiva tra spettatore, spazio, opera e tutti i suoi eventuali referenti/rimandi interni ed esterni, suggerita proprio dalla didascalia... [2 - Pio Tarantini]   Né con il concettuale, né contro. Risulta difficile, in poche righe, analizzare una mostra complessa come quella di Alberto Garutti al PAC di Milano: se ne può trarre invece qualche considerazione, non inusuale per chi scrive questa nota, sull’uso/abuso del cosiddetto concettuale nell’arte contemporanea e soprattutto attuale. Molto semplicemente a me paiono più convincenti, con qualche punta di notevole spessore artistico, le opere di Garutti che si materializzano, che concretizzano cioè, in un manufatto tangibile e fruibile, nella sua originalità l’idea dell’artista. Mi rendo conto che la linea di demarcazione tra l’arte come operazione puramente concettuale e arte come creazione di un manufatto originale è sottile ed è continuamente travalicata in un senso o nell’altro, per cui tutto si interseca e risulta difficile districarsi. Tuttavia, personalmente mi sento vicino da molti anni a quegli studiosi e critici d’arte che denunciano la deriva del concettuale nell’arte attuale: è come rivedere sempre lo stesso film, la ripetizione delle esperienze degli anni Sessanta/Settanta o, peggio ancora, una stanca riproposizione dei moduli duchampiani che sono stati geniali cento anni fa: proprio nel 1913 Duchamp proponeva il suo primo ready-made, lo scolabottiglie, che, decontestualizzato, diventa opera d’arte per decisione dell’artista, il quale dunque non crea più il manufatto, ma si limita a scoprirlo, con una operazione di prelievo dal reale, e indicarlo con gesto creativo. Ma sono passati cento anni e più di trenta/quaranta dall’esplosione del concettuale degli anni Sessanta/Settanta. Per tornare alla mostra di Garutti, e nella logica di questa mia diffidenza nei confronti di certe operazioni, mi paiono deboli alcune opere come la statua della Madonna tenuta a temperatura corporea, le frasi sparse e incise su materiali diversi, magari grandi fogli di carta che il visitatore può prelevare e portare via. Così come i microfoni sparsi nelle sale espositive che registrano le parole dei visitatori. Ma perché? Per aumentare l’inutile chiacchiericcio sull’arte? E si potrebbe continuare a lungo ricordando anche che molte altre opere invece si collocano su un diverso e più convincente piano di originalità. Non sarà un caso se, contemporaneamente alla mostra al PAC, di Garutti è stata inaugurata un’opera definitiva in uno spazio pubblico, la neonata Piazza Gae Aulenti, ai piedi del nuovo grattacielo di César Pelli a Milano: si tratta di una serie di tubi che si affacciano su un pozzo luce-aria, alla base della torre, e che interpretano in modo suggestivo il rapporto tra il cittadino fruitore e lo spazio stesso. Come dire: quando un’opera funziona senza tante spiegazioni teoriche o moduli duchampiani o concettuali. L’arte non è morta. Bisogna solo distinguere le trovate, spesso noiose, dalle idee.  Apri o scarica il PDF completo di questo confronto di opinioni pubblicato su Il Fotografo, Sprea Editore (per gentile concessione della rivista). Hanno partecipato, oltre a Stefania Biamonti e Pio Tarantini che riportiamo a lato,  Sandro Iovine e Laura Marcolini. riContemporaneo.org TOP
TOP Alberto Garutti, “Senza titolo”, 2008 Ceramica, resistenza elettrica, termostato, filo elettrico, base in legno Alberto Garutti, “Il cane qui ritratto appartiene a una delle famiglie di Trivero. Quest’opera è dedicata a loro e alle persone che sedendosi qui ne parleranno”, 2009 (in ordine di arrivo) Questo numero è online dal 15 gennaio 2013 / Ultimo aggiornamento: 15 aprile  2013