14/11/2020
IL MONDO DOVRÀ
CAMBIARE STRADA
di Giuseppe Donolato
Con
ingenuità,
da
giovane,
mi
sono
avvicinato
all’Etologia
con
l’obiettivo
di
scoprire
aspetti
primitivi
e
inesplorati
del
comportamento
umano
e,
nello
specifico,
di
quello
che
viene
inteso
per
“fare
arte”.
Una
grande
ingenuità,
un
indubbio
azzardo,
un
approccio
limitato
e
per
questo
fuorviante.
Allora
Konrad
Lorenz
affascinava,
aveva
un
gran
seguito
intellettuale
e
Desmond
Morris
aveva
scritto
il
libro
Biologia
dell’arte,
in
cui
descriveva
alcune
esperienze
espressive
prodotte
dagli
scimpanzè.
Malgrado
la
Psicologia
del
profondo,
la
Filosofia
estetica
e
l’ordinaria
letteratura
permettessero
un
percorso
conoscitivo
più
solido
e
fruibile,
la
Storia
dell’Arte
fosse
già
bella
e
confezionata
e
bastasse
seguirne
i
suggerimenti,
io,
ostinatamente,
coltivavo
l’Etologia.
Da
giovani,
il
tempo è forse adatto per tentare e forse giusto per sbagliare.
Tutto
inutile?
Probabile.
Eppure,
una
recente
sensibilità
bio-ecologista,
invitando
a
riconsiderare
il
modello
di
organizzazione
sociale,
ha
posto
in
sollecitazione
anche
l’Arte,
chiamata
a
rimodulare
la
sua
visione
per
renderla
funzionale
alla
futura
transizione
ambientale
ed
economica.
E
così
il
succitato,
improbabile
ed
improduttivo
percorso
conoscitivo,
in
me
ha
ritrovato
un
piccolo
pretesto
rivalutativo
e
una
speranza
di
utilità contributiva.
Il
mondo
nel
prossimo
futuro
dovrà
cambiare
strada,
e
l’Arte
potrebbe
sostenerne
il
percorso.
Dopo
anni
di
crisi,
derive
e
morti
annunciate,
confidare,
tuttavia,
in
un
nuovo
senso
artistico
comporta
una
titanica
fiducia
collettiva.
Al
reset
del
vecchio
ordine,
necessariamente
dovrebbe
conseguire
una
nuova
costruzione,
ma
considerato
che
ogni
trasformazione
comporta
abbagli,
illusioni
e
tradimenti
può
essere
opportuno
elaborare,
da
subito,
una
profonda
disamina
e
scoprire
fondamenta
solide,
radici
ataviche
e
riferimenti
basilari.
Tipicità
di
un’arte
preculturale,
sacrale
e
animica,
legata
alla
natura
e
percepita
come
emotività
animale.
Intuita,
“fiutata”
(ecco
l’etologia),
condivisa
con
l’empatica
virtù
presente
in
ogni
essere
sociale.
In
sostanza:
l’arte
Green
dovrà
riconsiderare
prioritaria
la
risposta
efficace
alla
primordiale
esigenza
dello
stare
bene
collettivo,
senza
forzature
e
malgrado le sovrastrutture economiche.
Una
dimensione
non
nuova,
presente
e
già
esperita
in
diverse
tradizioni asiatiche.
Se
l’Occidente,
tralasciando
mercato,
finanza
e
l’ossessione
per
un
Io
ipertrofico,
si
ponesse
in
ascolto,
cercando
gli
autentici
valori
della
sua
Arte,
se
la
bellezza
già
presente
nei
paesaggi
naturali,
nelle
cime
montane
e
nelle
vedute
marine,
s’allargasse
a
un
diffuso
hortus
conclusus
(giardini,
parchi,
viali)
o
alla
sua
rappresentazione
celebrativa
(Land
Art,
installazioni,
arti
visive),
potremmo
osservare
l’inizio
del
mondo nuovo o perlomeno l’entusiasmo della sua utopia.
Sin
d’ora,
a
questo
sentire,
a
questo
“richiamo
della
foresta”,
può
contribuire
l’animale
artista.
L’unico
testimone
sincero
della
sua
essenza.
Non
basterà,
ma
senza
di
lui,
l’architetto
paesaggista
rimarrà
un
burocrate
comunale,
il
giardiniere
un
bracciante
e
il
gallerista
il
solito
faccendiere sfaccendato.
Dopodiché ben venga il vento neo-costruttivista.