Aprile 2022
OGGI PIU’ CHE MAI SERVONO
ARTISTI LIBERI
di Emilio Isgrò
In
queste
ore
di
solitudine
obbligata
–
solitudine
dell’arte,
solitudine
del
mondo
–
è
singolare
che
gli
artisti
non
ne
approfittino
per
porre
una
questione
non
meno
seria
della
riapertura
dei
musei
in
piena
pandemia.
Una
questione
traducibile
in
una
domanda:
se
sia
lecito
affidare
la
cura
della
malattia
a
coloro
che
la
malattia
l’hanno
inseminata
e
fomentata.
Non
mi
riferisco
alla
malattia
generale
del
mondo.
Penso
alla
malattia
particolare
dell’arte:
che
è
quella
di
vivere
ancora,
dopo
un
secolo
e
mezzo
di
avanguardie,
su
una
eredità
ideologica
che
per
strada
ha
perduto
ogni
mordente
per
trasformarsi
in
puro
consumo.
Dimenticando
che
è
proprio
su
questo
terreno
che
si
apre
uno
spazio
straordinario
alla
creatività
italiana,
se
si
considera
che
i
nostri
artisti
(scrittori,
registi,
pittori)
non
sono
meno
bravi
dei
cuochi
e
degli
stilisti
che
tanto
hanno
contribuito
al
consolidamento
della
nostra
immagine
nel
mondo.
Se
si
riconosce
che
questa
nella
quale
siamo
immersi
è
una
guerra,
proprio
noi
italiani
non
possiamo
dimenticare
che
sulle
ceneri
della
Seconda
guerra
mondiale
il
nostro
Paese,
per
fare
un
esempio,
riconquistò
la
simpatia
internazionale
grazie
a
un
cinema,
come
quello
di
De
Sica
o
di
Rossellini,
capace
di
creare
con
pochi
mezzi,
e
praticamente
senza
attori,
o
con
attori
“presi
dalla
strada”,
un
potente
contraltare
emotivo
al
ben
più
sfarzoso
cinema
hollywoodiano.
Perché
è
sempre
dalle
ceneri
che
si
rinasce,
e
questo
gli
italiani
lo
sanno
per
lunga
esperienza.
Gli
italiani
sanno
che
la
loro
grandezza
è
sempre
la
precarietà
a
costruirla,
e
per
questo
hanno
bisogno
degli
artisti
e
dei
poeti,
specialisti
dell’instabilità
umana,
non
meno
che
dei
filosofi.
Pena
la
perdita
di
quella
creatività
estetica,
che
è
parte
integrante
della
creatività
sociale
e
civile
di
un
Paese.
Oggi,
forse,
è
opportuna
la
classica
distinzione
tra
intellettuale
e
poeta,
dove
per
poeta
si
intende
non
tanto
il
“fanciullino”
pascoliano
quanto
quel
tipo
di
intellettuale
chiamato
“artista”
che
quando
la
pura
riflessione
non
basta,
o
porta
al
vuoto,
se
ne
libera
per
cercare
le
risposte
in
quel
sottofondo
pascaliano
del
cuore
che
gli
consente
di
rappresentare
il
mondo
nella
sua
nudità
più
cruda.
Non
voglio
ridurre
tutto
l’universo
a
misura
d’arte,
come
oggi
pretende
la
retorica
di
chi
parla
di
“bellezza”
in
astratto,
ma
solo
ricordare
che
l’arte
è
un’attività
maledettamente
concreta,
e
là
dove
essa
è
priva
di
coraggio
è
la
società
nel
suo
insieme
che
perde
colpi.
Come
dice
Goethe
nel
Faust:
“Troppo
vecchio
io
sono
per
giocare
soltanto,
troppo
giovane
per
non
avere
desiderio”;
ed
è
chiaro
che
nessuno,
oggi,
può
permettersi
di
giocare
solo
per
giocare.
È
un
momento
decisivo
di
passaggio:
purché,
osservando
i
limiti
degli
altri
–
gli
ultimi
trent’anni
dell’arte
finanziarizzata
sono
stati
ripetitivi
e
noiosi
–,
impariamo
a
riconoscere
anche
il
nostro
limite
più
vistoso,
riassumibile
in
poche
parole:
timore
del
rischio,
paura
di
conoscere
il
mondo.
Il
che
è
autolesionistico
in
un
tempo
in
cui
l’arte
contemporanea
(diventata
un
potentissimo
strumento
mediatico)
contribuisce
non
poco
all’immagine
anche
economica
d’un
paese
non
meno
che
l’economia
in
senso
stretto.
Per
questo
può
essere
pericoloso
puntare
tutte
le
carte
sul
nostro
glorioso
passato.
Preserviamo
pure
gli
Uffizi
e
il
Colosseo.
Ci
mancherebbe.
Ma
senza
dimenticare
che
fuori
dell’uscio
ci
sono
tanti
giovani
innovatori
esposti
all’indifferenza.
Non
si
tratta
di
professare
un
rifiuto
fuori
tempo
del
denaro,
perché
anche
l’artista
ne
ha
bisogno
per
realizzare
le
sue
opere,
spesso
affidate
a
tecnologie
molto
costose.
Ma
quando
il
denaro
diventa
un’istanza
ideologica,
anzi
dogmatica,
è
utile
rammentare
la
disputa
che
Elio
Vittorini
ebbe
con
Palmiro
Togliatti
che
lo
invitava
a
ricalcare
servilmente
la
linea
politica
del
vecchio
Partito
comunista.
Vittorini,
con
dignità,
rispose
che
all’artista,
al
poeta,
non
si
può
chiedere
di
suonare
il
piffero
per
la
rivoluzione.
A
maggior
ragione,
oggi
non
gli
si
può
chiedere
di
suonare
il
piffero
per la finanza.
Avevo
letto
l’anno
scorso
su
l’Avvenire,
in
piena
pandemia,
questo
interessante
e
condivisibilissimo
intervento
di
Isgrò,
che
mi
aveva
particolarmente
colpito
perché
sintetizza
molto
bene
una
critica
in
profondità
della
nostra
attuale
“fabbrica
dell’arte”
pur
provenendo, in fondo, proprio da uno dei suoi stessi protagonisti.
Mi
scuso
di
non
essere
riuscito
a
contattare
l’autore
per
chiedergli
il
permesso
di
ripubblicarlo,
e
dunque,
ringraziando
quest’ultimo,
lo toglierò o integrerò qualora lo volesse. (G.S.)