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| © blogMagazine pensato, realizzato e pubblicato in rete da Giorgio Seveso  dal 2011   |    Codice ISSN 2239-0235 |

2 maggio 2022

PACE E GUERRA

Uno sguardo sulla classicità di Giovanni Mattio Frastornato dalle notizie contraddittorie, ma comunque allarmanti, sugli eventi internazionali, mi rifugio nel passato in cerca di risposte agli inevitabili tormenti che ci assalgono. Premetto che l’essere nato nell’immediato secondo dopoguerra, con il suo strascico di memorie dolorose impresse sui volti sofferenti e rassegnati dei padri, delle madri, delle generazioni che vissero gli orrori e l’ingiustizia di progetti folli, ha costituito per molti un forte antidoto all’uso delle armi. E’ la ragione per cui alla virilità militaresca, al patriottismo bellico, si andò gradualmente e rapidamente sostituendo un concetto di stato come unione di forze tese alla solidarietà e al progresso. Non dimentichiamo le obiezioni di coscienza che costarono prigionie e sbeffeggiamenti, ma sfociarono nell’abolizione della leva obbligatoria e in servizi alla comunità, ben più qualificanti. Figlio di quello spirito, di quelle convinzioni morali, inorridisco di fronte all’uso della violenza legalizzata e intesa a negare ogni dignità umana e rifuggo dai resoconti di immagini, di parole che non saranno mai pari allo strazio, alla sofferenza di chi attivamente, o passivamente è coinvolto nel meccanismo della guerra. Vi rifuggo, come istintivamente allontana la mano dalla fiamma chi ha provato nel corpo e nella mente la sensazione della scottatura. La ragione per cui alla mente si affacciano testimonianze storiche, letterarie, perciò non risiede soltanto nella frequentazione di tali argomenti per motivi professionali, ma in una scelta di campo, etica ed estetica. Mi spiego meglio. La ricerca di spunti e suggestioni in civiltà passate fa parte di un’indagine sulle radici del mondo a cui apparteniamo, ma al tempo stesso è rifugio e contemplazione estetica che si traduce in comportamento. Ovverosia diventa scelta morale, cioè di costume individuale, e convinzione etica cioè collettiva. Mi interrogo su questo al ricorrente ricordo, di fronte agli eventi attuali, di un passo di Tucidide, famoso ed emblematico: il cosiddetto dialogo dei Meli. Nella fase intermedia (416 a.C.) della guerra trentennale tra Atene Sparta per il predominio sull’Egeo e le terre che si affacciano su di esso, Atene invia quaranta navi ad assediare l’isola di Melo nelle Cicladi, colonia spartana neutrale, per chiederne l’asservimento con argomentazioni pretestuose e arroganti. Chi abbia la curiosità di leggersi il resoconto dell’ambasceria inviata da Atene ai Meli e il conseguente contraddittorio tra gli interlocutori, noterà l’incredibile somiglianza dei fatti antichi con quelli dei giorni nostri. Se l’episodio è famoso per stigmatizzare l’atteggiamento tracotante del più forte nei confronti dei più deboli, l’intera opera storica di Tucidide dedicata allo scontro armato tra due potenze dell’epoca è esemplare per capire cause, eventi, passioni e sentimenti umani di fronte a un conflitto. E se la dimensione del conflitto tra Atene e Sparta ci pare irrisoria a cospetto delle vicende attuali, dobbiamo ricordarci che si trattò di uno scontro tra le due maggiori superpotenze del mondo allora conosciuto. Dopo l’immersione nella lucida analisi di Tucidide (a partire dalla dichiarazione di intenti del proemio, all’analisi delle premesse, alla indagine sui fatti, alle dichiarazioni trionfalistiche e ispirate dei protagonisti (vedi i discorsi di Pericle in assemblea), per analogia mi inoltro nella saggezza del mito e della favola che prende forma già con Esiodo nell’ottavo secolo a. C. Ne “Le opere e i giorni” il poeta arcaico greco introduce come terzo mito la favola dello sparviero e dell’usignolo a dimostrazione che la logica del più forte risponde a un utile immediato e concreto, incurante del domani. Con il corpus delle favole esopiche, due secoli dopo, abbiamo un’ampia campionatura delle nefandezze umane, delle quali è esemplare la favola del lupo e dell’agnello, che tutti sappiamo come va a finire (al contesto contemporaneo, si adatta anche molto bene la favola successiva, cioè quella del lupo e dell’agnellino che si rifugia in un tempio, preferendo correre il rischio di essere sacrificato a un Dio che di venire sgozzato dal lupo). Lo scontro tra umili e ricchi, tra deboli e potenti è il denominatore comune nelle oltre trecentocinquanta favole, in cui un campionario di animali di diversa specie deve soggiacere alla ferrea legge del più forte (non può sfuggire l’analogia con “La fattoria degli animali”, il romanzo allegorico di George Orwell - metà del secolo scorso - in cui la sete di potere prevale sulle migliori intenzioni). Se le favole esopiche ebbero tanta fortuna - pur godendo di una scarsa dignità letteraria - e furono riproposte, riscritte, adattate a più riprese in secoli e civiltà successive, è vero segno che il problema di un’umanità dolente, angariata, scissa tra sopraffatti e sopraffattori, non è mai stato superato. Accanto ad esse fiorisce, però, una letteratura della pace di alta fattura, rivolta alle classi dominanti e colte. Una letteratura che diventa condanna, grido di dolore per la ferocia della guerra e affermazione di valori contrari. Sorvolando sulla commedia alessandrina e la letteratura ellenistica epigrammatica, troviamo a Roma, nella metà del primo secolo avanti Cristo, un poema che è un inno continuo ai valori della convivenza pacifica. Il proemio del “De Rerum Natura” di Lucrezio oserei affermare che è il testo più intenso e più alto mai dedicato alla pace (non sfugga che se le correnti di pensiero, se i letterati ardivano proporre tali valori, questo era dovuto alla maturazione dell’idea che le opere di pace sono infinitamente più gradevoli e vantaggiose di quelle affermate con la violenza). Lucrezio non fu il solo a credere e a sostenere il valore della pace come basilare per la serenità dello spirito e l’operosità del corpo: pensiamo al suo contemporaneo Catullo (il cui “Liber” è un ininterrotto canto d’amore in tempi tristi di guerre esterne e intestine), alle “Bucoliche” di Virgilio (rifugio in un mondo ideale pervaso dall’attesa di una rigenerazione), alle “Georgiche” sempre di Virgilio, che propone un ritorno alla terra - secondo gli intenti di Augusto - e la cura, il rispetto della natura come fonte di benessere, di serenità e di progresso. Di a poco, i poeti elegiaci della seconda età augustea sosterranno un ideale di vita diametralmente opposto a quello delle armi (l’ecloga prima di Tibullo è un proclama vibrante e accorato di valori contrapposti all’avidità e alla violenza). Non mi spingo oltre, fiducioso che gli spunti di riflessione siano sufficienti a testimoniare che la dimensione della pace è un’aspirazione antica e costante nell’umanità, perché anche quando le guerre si svolgevano lontano dagli insediamenti civili, incombeva comunque la morte, la lacerazione della famiglia e l’economia languiva. Il lungo e appassionato sodalizio con l’arte mi richiede almeno uno sguardo all’arte figurativa, in cui il contributo di pittori e scultori sul tema della pace e della guerra è puntuale in tutte le epoche, ora in forme mitologiche, ora allegoriche. Collegandomi al poema di Lucrezio, mi piace ricordare i dipinti di Sandro Botticelli dedicati a Venere e Marte (National Gallery, Londra) e “La Primavera” degli Uffizi di Firenze, caratterizzata da un’atmosfera di prosperità e di letizia. Tra gli altri, ancora i grandi dipinti allegorici di Rubens sul tema della pace e della guerra sempre alla National Gallery, o il conturbante quadro sulla guerra di Henri Rousseau del Museo d’Orsay di Parigi, o la cappella del castello di Vallauris interamente dipinta da Picasso sul tema della pace e della guerra contrapposte. Su tutte in epoca moderna si impone “Guernica”, dipinta nel 1937 da Picasso per l’esposizione universale di Parigi, in seguito al bombardamento della omonima cittadina basca e ora in permanenza al Reina Sofia di Madrid. Al sommario excursus sull’argomento della pace e della guerra nel mondo classico, vorrei aggiungere un’ultima considerazione: da sempre ci siamo illusi che gli errori del passato ci salvaguardassero dal compiere i medesimi nel futuro. L’esperienza insegna che non è cosi, se non in minima misura. L’esortazione dei pensatori, gli intenti degli storici, sono spesso dimenticati e disattesi, per la ragione che ogni generazione vuole essere protagonista, anche a dispetto degli insegnamenti del passato. Che la storia sia maestra di vita, secondo la famosa locuzione di Cicerone dal “De oratore”, non lo credevano fino in fondo neanche i primi storici, se non come monito alle generazioni successive a imparare qualcosa dai fatti accaduti: “Non sia vano ciò che è successo! ..” diceva Erodoto, e “La mia ricerca sia utile possesso per l’eternità” diceva Tucidide, ma con la coscienza che la natura umana è contrassegnata dall’ardire, dal bisogno di sperimentare in prima persona, anche a costo di sbagliare e di rinnegare il passato. Cicerone sostiene il valore di testimonianza della storia, di conservazione della memoria di un passato che può servire da esempio e, incidentalmente anche di maestra di vita, ma con la consapevolezza di quanto minima sia l’accoglienza dell’insegnamento dei maestri, quando addirittura non venga decisamente messo in discussione e respinto!

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11 GIOVANNI MATTIO  Nato a Cuneo nel 1949, vive a Milano dal 1989. Dopo studi classici, ha insegnato e dipinto. "La pace (e la guerra)", 2022

polemiche e proposte sull’arte contemporanea

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2 maggio 2022

PACE E GUERRA

Uno sguardo sulla classicità di Giovanni Mattio Frastornato dalle notizie contraddittorie, ma comunque allarmanti, sugli eventi internazionali, mi rifugio nel passato in cerca di risposte agli inevitabili tormenti che ci assalgono. Premetto che l’essere nato nell’immediato secondo dopoguerra, con il suo strascico di memorie dolorose impresse sui volti sofferenti e rassegnati dei padri, delle madri, delle generazioni che vissero gli orrori e l’ingiustizia di progetti folli, ha costituito per molti un forte antidoto all’uso delle armi. E’ la ragione per cui alla virilità militaresca, al patriottismo bellico, si andò gradualmente e rapidamente sostituendo un concetto di stato come unione di forze tese alla solidarietà e al progresso. Non dimentichiamo le obiezioni di coscienza che costarono prigionie e sbeffeggiamenti, ma sfociarono nell’abolizione della leva obbligatoria e in servizi alla comunità, ben più qualificanti. Figlio di quello spirito, di quelle convinzioni morali, inorridisco di fronte all’uso della violenza legalizzata e intesa a negare ogni dignità umana e rifuggo dai resoconti di immagini, di parole che non saranno mai pari allo strazio, alla sofferenza di chi attivamente, o passivamente è coinvolto nel meccanismo della guerra. Vi rifuggo, come istintivamente allontana la mano dalla fiamma chi ha provato nel corpo e nella mente la sensazione della scottatura. La ragione per cui alla mente si affacciano testimonianze storiche, letterarie, perciò non risiede soltanto nella frequentazione di tali argomenti per motivi professionali, ma in una scelta di campo, etica ed estetica. Mi spiego meglio. La ricerca di spunti e suggestioni in civiltà passate fa parte di un’indagine sulle radici del mondo a cui apparteniamo, ma al tempo stesso è rifugio e contemplazione estetica che si traduce in comportamento. Ovverosia diventa scelta morale, cioè di costume individuale, e convinzione etica cioè collettiva. Mi interrogo su questo al ricorrente ricordo, di fronte agli eventi attuali, di un passo di Tucidide, famoso ed emblematico: il cosiddetto dialogo dei Meli. Nella fase intermedia (416 a.C.) della guerra trentennale tra Atene Sparta per il predominio sull’Egeo e le terre che si affacciano su di esso, Atene invia quaranta navi ad assediare l’isola di Melo nelle Cicladi, colonia spartana neutrale, per chiederne l’asservimento con argomentazioni pretestuose e arroganti. Chi abbia la curiosità di leggersi il resoconto dell’ambasceria inviata da Atene ai Meli e il conseguente contraddittorio tra gli interlocutori, noterà l’incredibile somiglianza dei fatti antichi con quelli dei giorni nostri. Se l’episodio è famoso per stigmatizzare l’atteggiamento tracotante del più forte nei confronti dei più deboli, l’intera opera storica di Tucidide dedicata allo scontro armato tra due potenze dell’epoca è esemplare per capire cause, eventi, passioni e sentimenti umani di fronte a un conflitto. E se la dimensione del conflitto tra Atene e Sparta ci pare irrisoria a cospetto delle vicende attuali, dobbiamo ricordarci che si trattò di uno scontro tra le due maggiori superpotenze del mondo allora conosciuto. Dopo l’immersione nella lucida analisi di Tucidide (a partire dalla dichiarazione di intenti del proemio, all’analisi delle premesse, alla indagine sui fatti, alle dichiarazioni trionfalistiche e ispirate dei protagonisti (vedi i discorsi di Pericle in assemblea), per analogia mi inoltro nella saggezza del mito e della favola che prende forma già con Esiodo nell’ottavo secolo a. C. Ne “Le opere e i giorni” il poeta arcaico greco introduce come terzo mito la favola dello sparviero e dell’usignolo a dimostrazione che la logica del più forte risponde a un utile immediato e concreto, incurante del domani. Con il corpus delle favole esopiche, due secoli dopo, abbiamo un’ampia campionatura delle nefandezze umane, delle quali è esemplare la favola del lupo e dell’agnello, che tutti sappiamo come va a finire (al contesto contemporaneo, si adatta anche molto bene la favola successiva, cioè quella del lupo e dell’agnellino che si rifugia in un tempio, preferendo correre il rischio di essere sacrificato a un Dio che di venire sgozzato dal lupo). Lo scontro tra umili e ricchi, tra deboli e potenti è il denominatore comune nelle oltre trecentocinquanta favole, in cui un campionario di animali di diversa specie deve soggiacere alla ferrea legge del più forte (non può sfuggire l’analogia con “La fattoria degli animali”, il romanzo allegorico di George Orwell - metà del secolo scorso - in cui la sete di potere prevale sulle migliori intenzioni). Se le favole esopiche ebbero tanta fortuna - pur godendo di una scarsa dignità letteraria - e furono riproposte, riscritte, adattate a più riprese in secoli e civiltà successive, è vero segno che il problema di un’umanità dolente, angariata, scissa tra sopraffatti e sopraffattori, non è mai stato superato. Accanto ad esse fiorisce, però, una letteratura della pace di alta fattura, rivolta alle classi dominanti e colte. Una letteratura che diventa condanna, grido di dolore per la ferocia della guerra e affermazione di valori contrari. Sorvolando sulla commedia alessandrina e la letteratura ellenistica epigrammatica, troviamo a Roma, nella metà del primo secolo avanti Cristo, un poema che è un inno continuo ai valori della convivenza pacifica. Il proemio del “De Rerum Natura” di Lucrezio oserei affermare che è il testo più intenso e più alto mai dedicato alla pace (non sfugga che se le correnti di pensiero, se i letterati ardivano proporre tali valori, questo era dovuto alla maturazione dell’idea che le opere di pace sono infinitamente più gradevoli e vantaggiose di quelle affermate con la violenza). Lucrezio non fu il solo a credere e a sostenere il valore della pace come basilare per la serenità dello spirito e l’operosità del corpo: pensiamo al suo contemporaneo Catullo (il cui “Liber” è un ininterrotto canto d’amore in tempi tristi di guerre esterne e intestine), alle “Bucoliche” di Virgilio (rifugio in un mondo ideale pervaso dall’attesa di una rigenerazione), alle “Georgiche” sempre di Virgilio, che propone un ritorno alla terra - secondo gli intenti di Augusto - e la cura, il rispetto della natura come fonte di benessere, di serenità e di progresso. Di a poco, i poeti elegiaci della seconda età augustea sosterranno un ideale di vita diametralmente opposto a quello delle armi (l’ecloga prima di Tibullo è un proclama vibrante e accorato di valori contrapposti all’avidità e alla violenza). Non mi spingo oltre, fiducioso che gli spunti di riflessione siano sufficienti a testimoniare che la dimensione della pace è un’aspirazione antica e costante nell’umanità, perché anche quando le guerre si svolgevano lontano dagli insediamenti civili, incombeva comunque la morte, la lacerazione della famiglia e l’economia languiva. Il lungo e appassionato sodalizio con l’arte mi richiede almeno uno sguardo all’arte figurativa, in cui il contributo di pittori e scultori sul tema della pace e della guerra è puntuale in tutte le epoche, ora in forme mitologiche, ora allegoriche. Collegandomi al poema di Lucrezio, mi piace ricordare i dipinti di Sandro Botticelli dedicati a Venere e Marte (National Gallery, Londra) e “La Primavera” degli Uffizi di Firenze, caratterizzata da un’atmosfera di prosperità e di letizia. Tra gli altri, ancora i grandi dipinti allegorici di Rubens sul tema della pace e della guerra sempre alla National Gallery, o il conturbante quadro sulla guerra di Henri Rousseau del Museo d’Orsay di Parigi, o la cappella del castello di Vallauris interamente dipinta da Picasso sul tema della pace e della guerra contrapposte. Su tutte in epoca moderna si impone “Guernica”, dipinta nel 1937 da Picasso per l’esposizione universale di Parigi, in seguito al bombardamento della omonima cittadina basca e ora in permanenza al Reina Sofia di Madrid. Al sommario excursus sull’argomento della pace e della guerra nel mondo classico, vorrei aggiungere un’ultima considerazione: da sempre ci siamo illusi che gli errori del passato ci salvaguardassero dal compiere i medesimi nel futuro. L’esperienza insegna che non è cosi, se non in minima misura. L’esortazione dei pensatori, gli intenti degli storici, sono spesso dimenticati e disattesi, per la ragione che ogni generazione vuole essere protagonista, anche a dispetto degli insegnamenti del passato. Che la storia sia maestra di vita, secondo la famosa locuzione di Cicerone dal “De oratore”, non lo credevano fino in fondo neanche i primi storici, se non come monito alle generazioni successive a imparare qualcosa dai fatti accaduti: “Non sia vano ciò che è successo! ..” diceva Erodoto, e “La mia ricerca sia utile possesso per l’eternità” diceva Tucidide, ma con la coscienza che la natura umana è contrassegnata dall’ardire, dal bisogno di sperimentare in prima persona, anche a costo di sbagliare e di rinnegare il passato. Cicerone sostiene il valore di testimonianza della storia, di conservazione della memoria di un passato che può servire da esempio e, incidentalmente anche di maestra di vita, ma con la consapevolezza di quanto minima sia l’accoglienza dell’insegnamento dei maestri, quando addirittura non venga decisamente messo in discussione e respinto!
GIOVANNI MATTIO  Nato a Cuneo nel 1949, vive a Milano dal 1989. Dopo studi classici, ha insegnato e dipinto. "La pace (e la guerra)", 2022