2 maggio 2022
PACE E GUERRA
Uno sguardo sulla classicità
di Giovanni Mattio
Frastornato
dalle
notizie
contraddittorie,
ma
comunque
allarmanti,
sugli
eventi
internazionali,
mi
rifugio
nel
passato
in
cerca di risposte agli inevitabili tormenti che ci assalgono.
Premetto
che
l’essere
nato
nell’immediato
secondo
dopoguerra,
con
il
suo
strascico
di
memorie
dolorose
impresse
sui
volti
sofferenti
e
rassegnati
dei
padri,
delle
madri,
delle
generazioni
che
vissero
gli
orrori
e
l’ingiustizia
di
progetti
folli,
ha
costituito
per
molti
un
forte
antidoto
all’uso
delle
armi.
E’
la
ragione
per
cui
alla
virilità
militaresca,
al
patriottismo
bellico,
si
andò
gradualmente
e
rapidamente
sostituendo
un
concetto
di
stato
come
unione
di
forze
tese
alla
solidarietà
e
al
progresso.
Non
dimentichiamo
le
obiezioni
di
coscienza
che
costarono
prigionie
e
sbeffeggiamenti,
ma
sfociarono
nell’abolizione
della
leva
obbligatoria
e
in
servizi
alla
comunità,
ben
più qualificanti.
Figlio
di
quello
spirito,
di
quelle
convinzioni
morali,
inorridisco
di
fronte
all’uso
della
violenza
legalizzata
e
intesa
a
negare
ogni
dignità
umana
e
rifuggo
dai
resoconti
di
immagini,
di
parole
che
non
saranno
mai
pari
allo
strazio,
alla
sofferenza
di
chi
attivamente,
o
passivamente è coinvolto nel meccanismo della guerra.
Vi
rifuggo,
come
istintivamente
allontana
la
mano
dalla
fiamma
chi
ha
provato
nel
corpo
e
nella
mente
la
sensazione
della
scottatura.
La
ragione
per
cui
alla
mente
si
affacciano
testimonianze
storiche,
letterarie,
perciò
non
risiede
soltanto
nella
frequentazione
di
tali
argomenti
per
motivi
professionali,
ma
in
una
scelta
di
campo,
etica
ed
estetica.
Mi
spiego
meglio.
La
ricerca
di
spunti
e
suggestioni
in
civiltà
passate
fa
parte
di
un’indagine
sulle
radici
del
mondo
a
cui
apparteniamo,
ma
al
tempo
stesso
è
rifugio
e
contemplazione
estetica
che
si
traduce
in
comportamento.
Ovverosia
diventa
scelta
morale,
cioè
di
costume
individuale,
e
convinzione etica cioè collettiva.
Mi
interrogo
su
questo
al
ricorrente
ricordo,
di
fronte
agli
eventi
attuali,
di
un
passo
di
Tucidide,
famoso
ed
emblematico:
il
cosiddetto dialogo dei Meli.
Nella
fase
intermedia
(416
a.C.)
della
guerra
trentennale
tra
Atene
Sparta
per
il
predominio
sull’Egeo
e
le
terre
che
si
affacciano
su
di
esso,
Atene
invia
quaranta
navi
ad
assediare
l’isola
di
Melo
nelle
Cicladi,
colonia
spartana
neutrale,
per
chiederne
l’asservimento
con argomentazioni pretestuose e arroganti.
Chi
abbia
la
curiosità
di
leggersi
il
resoconto
dell’ambasceria
inviata
da
Atene
ai
Meli
e
il
conseguente
contraddittorio
tra
gli
interlocutori,
noterà
l’incredibile
somiglianza
dei
fatti
antichi
con
quelli
dei
giorni
nostri.
Se
l’episodio
è
famoso
per
stigmatizzare
l’atteggiamento
tracotante
del
più
forte
nei
confronti
dei
più
deboli,
l’intera
opera
storica
di
Tucidide
dedicata
allo
scontro
armato
tra
due
potenze
dell’epoca
è
esemplare
per
capire
cause,
eventi,
passioni
e
sentimenti
umani
di
fronte
a
un
conflitto.
E
se
la
dimensione
del
conflitto
tra
Atene
e
Sparta
ci
pare
irrisoria
a
cospetto
delle
vicende
attuali,
dobbiamo
ricordarci
che
si
trattò
di
uno
scontro
tra
le
due
maggiori
superpotenze
del
mondo
allora
conosciuto.
Dopo
l’immersione
nella
lucida
analisi
di
Tucidide
(a
partire
dalla
dichiarazione
di
intenti
del
proemio,
all’analisi
delle
premesse,
alla
indagine
sui
fatti,
alle
dichiarazioni
trionfalistiche
e
ispirate
dei
protagonisti
(vedi
i
discorsi
di
Pericle
in
assemblea),
per
analogia
mi
inoltro
nella
saggezza
del
mito
e
della
favola
che
prende
forma
già con Esiodo nell’ottavo secolo a. C.
Ne
“Le
opere
e
i
giorni”
il
poeta
arcaico
greco
introduce
come
terzo
mito
la
favola
dello
sparviero
e
dell’usignolo
a
dimostrazione
che
la
logica
del
più
forte
risponde
a
un
utile
immediato e concreto, incurante del domani.
Con
il
corpus
delle
favole
esopiche,
due
secoli
dopo,
abbiamo
un’ampia
campionatura
delle
nefandezze
umane,
delle
quali
è
esemplare
la
favola
del
lupo
e
dell’agnello,
che
tutti
sappiamo
come
va
a
finire
(al
contesto
contemporaneo,
si
adatta
anche
molto
bene
la
favola
successiva,
cioè
quella
del
lupo
e
dell’agnellino
che
si
rifugia
in
un
tempio,
preferendo
correre
il
rischio
di
essere
sacrificato
a
un
Dio
che
di
venire
sgozzato
dal
lupo).
Lo
scontro
tra
umili
e
ricchi,
tra
deboli
e
potenti
è
il
denominatore
comune
nelle
oltre
trecentocinquanta
favole,
in
cui
un
campionario
di
animali
di
diversa
specie
deve
soggiacere
alla
ferrea
legge
del
più
forte
(non
può
sfuggire
l’analogia
con
“La
fattoria
degli
animali”,
il
romanzo
allegorico
di
George
Orwell
-
metà
del
secolo
scorso
-
in
cui
la
sete
di
potere
prevale
sulle
migliori intenzioni).
Se
le
favole
esopiche
ebbero
tanta
fortuna
-
pur
godendo
di
una
scarsa
dignità
letteraria
-
e
furono
riproposte,
riscritte,
adattate
a
più
riprese
in
secoli
e
civiltà
successive,
è
vero
segno
che
il
problema
di
un’umanità
dolente,
angariata,
scissa
tra
sopraffatti
e
sopraffattori, non è mai stato superato.
Accanto
ad
esse
fiorisce,
però,
una
letteratura
della
pace
di
alta
fattura,
rivolta
alle
classi
dominanti
e
colte.
Una
letteratura
che
diventa
condanna,
grido
di
dolore
per
la
ferocia
della
guerra
e
affermazione
di
valori
contrari.
Sorvolando
sulla
commedia
alessandrina
e
la
letteratura
ellenistica
epigrammatica,
troviamo
a
Roma,
nella
metà
del
primo
secolo
avanti
Cristo,
un
poema
che
è
un
inno
continuo
ai
valori
della
convivenza
pacifica.
Il
proemio
del
“De
Rerum
Natura”
di
Lucrezio
oserei
affermare
che
è
il
testo
più
intenso
e
più
alto
mai
dedicato
alla
pace
(non
sfugga
che
se
le
correnti
di
pensiero,
se
i
letterati
ardivano
proporre
tali
valori,
questo
era
dovuto
alla
maturazione
dell’idea
che
le
opere
di
pace
sono
infinitamente
più
gradevoli
e
vantaggiose
di
quelle
affermate con la violenza).
Lucrezio
non
fu
il
solo
a
credere
e
a
sostenere
il
valore
della
pace
come
basilare
per
la
serenità
dello
spirito
e
l’operosità
del
corpo:
pensiamo
al
suo
contemporaneo
Catullo
(il
cui
“Liber”
è
un
ininterrotto
canto
d’amore
in
tempi
tristi
di
guerre
esterne
e
intestine),
alle
“Bucoliche”
di
Virgilio
(rifugio
in
un
mondo
ideale
pervaso
dall’attesa
di
una
rigenerazione),
alle
“Georgiche”
sempre
di
Virgilio,
che
propone
un
ritorno
alla
terra
-
secondo
gli
intenti
di
Augusto
-
e
la
cura,
il
rispetto
della
natura
come
fonte
di
benessere,
di
serenità
e
di
progresso.
Di
lì
a
poco,
i
poeti
elegiaci
della
seconda
età
augustea
sosterranno
un
ideale
di
vita
diametralmente
opposto
a
quello
delle
armi
(l’ecloga
prima
di
Tibullo
è
un
proclama
vibrante
e
accorato
di
valori
contrapposti
all’avidità e alla violenza).
Non
mi
spingo
oltre,
fiducioso
che
gli
spunti
di
riflessione
siano
sufficienti
a
testimoniare
che
la
dimensione
della
pace
è
un’aspirazione
antica
e
costante
nell’umanità,
perché
anche
quando
le
guerre
si
svolgevano
lontano
dagli
insediamenti
civili,
incombeva
comunque
la
morte,
la
lacerazione
della
famiglia
e
l’economia languiva.
Il
lungo
e
appassionato
sodalizio
con
l’arte
mi
richiede
almeno
uno
sguardo
all’arte
figurativa,
in
cui
il
contributo
di
pittori
e
scultori
sul
tema
della
pace
e
della
guerra
è
puntuale
in
tutte
le
epoche,
ora
in
forme
mitologiche,
ora
allegoriche.
Collegandomi
al
poema
di
Lucrezio,
mi
piace
ricordare
i
dipinti
di
Sandro
Botticelli
dedicati
a
Venere
e
Marte
(National
Gallery,
Londra)
e
“La
Primavera”
degli
Uffizi
di
Firenze,
caratterizzata
da
un’atmosfera
di
prosperità
e
di
letizia.
Tra
gli
altri,
ancora
i
grandi
dipinti
allegorici
di
Rubens
sul
tema
della
pace
e
della
guerra
sempre
alla
National
Gallery,
o
il
conturbante
quadro
sulla
guerra
di
Henri
Rousseau
del
Museo
d’Orsay
di
Parigi,
o
la
cappella
del
castello
di
Vallauris
interamente
dipinta
da
Picasso
sul
tema
della
pace
e
della
guerra
contrapposte.
Su
tutte
in
epoca
moderna
si
impone
“Guernica”,
dipinta
nel
1937
da
Picasso
per
l’esposizione
universale
di
Parigi,
in
seguito
al
bombardamento
della
omonima
cittadina basca e ora in permanenza al Reina Sofia di Madrid.
Al
sommario
excursus
sull’argomento
della
pace
e
della
guerra
nel
mondo
classico,
vorrei
aggiungere
un’ultima
considerazione:
da
sempre
ci
siamo
illusi
che
gli
errori
del
passato
ci
salvaguardassero
dal
compiere
i
medesimi
nel
futuro.
L’esperienza
insegna
che
non
è
cosi,
se
non
in
minima
misura.
L’esortazione
dei
pensatori,
gli
intenti
degli
storici,
sono
spesso
dimenticati
e
disattesi,
per
la
ragione
che
ogni
generazione
vuole
essere
protagonista,
anche
a
dispetto
degli
insegnamenti
del
passato.
Che
la
storia
sia
maestra
di
vita,
secondo
la
famosa
locuzione
di
Cicerone
dal
“De
oratore”,
non
lo
credevano
fino
in
fondo
neanche
i
primi
storici,
se
non
come
monito
alle
generazioni
successive
a
imparare
qualcosa
dai
fatti
accaduti:
“Non
sia
vano
ciò
che
è
successo!
..”
diceva
Erodoto,
e
“La
mia
ricerca
sia
utile
possesso
per
l’eternità”
diceva
Tucidide,
ma
con
la
coscienza
che
la
natura
umana
è
contrassegnata
dall’ardire,
dal
bisogno
di
sperimentare
in
prima
persona,
anche
a
costo
di
sbagliare
e
di
rinnegare il passato.
Cicerone
sostiene
il
valore
di
testimonianza
della
storia,
di
conservazione
della
memoria
di
un
passato
che
può
servire
da
esempio
e,
incidentalmente
anche
di
maestra
di
vita,
ma
con
la
consapevolezza
di
quanto
minima
sia
l’accoglienza
dell’insegnamento
dei
maestri,
quando
addirittura
non
venga
decisamente messo in discussione e respinto!