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Carlo Adelio Galimberti
pittore
(sito
personale)
29/03/2011
Caro
Gilberto,
sono felice che tu abbia risposto al mio intervento. È un segno
della vitalità di questo sito. Debbo subito dire che sarei d’accordo
con te, soprattutto sul fatto che nessuno di noi debba mortificarsi
per i giudizi negativi di alcuni critici di successo.
Ma, non è questo il punto.
L’importante è, come dici tu, «entrare nel dibattito». Senza
scomodare la «Verità» che mi auguro nessuno possieda.
È che nessuno dei «nostri» ha il fegato di fare affermazioni con
altrettanta sfrontatezza come quelli che, solo a campione, io ho
citato come avversari del dipingere.
Tu sentirai spesso, dai teorici che la pensano come noi,
affermazioni pubbliche, e sottolineo pubbliche, assai accomodanti e
molto comprensive nei confronti dell’espressione cosiddetta
artistica di successo. In privato ci battiamo tutti una manata sulle
spalle e una strizzatina d’occhio. Ma non è con gesti nascostamente
amichevoli che ci si ripropone all’attenzione dei più sensibili.
Dico dei più sensibili, perché spesso mi trovo con persone colte
che, in privato, ti dichiarano il loro sconcerto per l’espressione
che oggi viene chiamata arte contemporanea.
Ecco, il problema è non cedere al ricatto che anche i più
intelligenti subiscono: «lei non se ne intende di arte
contemporanea». E provare invece a sostenere, con i mezzi di cui
ciascuno dispone, che c’è attorno una presa in giro e che noi siamo
come quel fanciullo che vedeva il re nudo.
Il problema è che la nostra voce è debole e non dispone della
potente macchina da guerra dei cosiddetti intenditori d’arte
contemporanea, che sfruttano soprattutto soldi pubblici per
affermare le loro scelte e per imporre le loro scelte.
Ma, ch’io sappia, nessuna rivoluzione ha avuto successo facendo solo
un calcolo di convenienza. Allora, nel nostro piccolo, potremmo
provarci. In ogni occasione.
Ieri
accompagnavo un gruppo di manager di una multinazionale americana al
Museo del ‘900 a Milano. Quando siamo arrivati davanti alle opere di
Emilio Isgrò, uno di loro, mi ha chiesto: «Senta, se io ora vado a
casa, prendo un libro e cancello tutte le parole, meno una, di una
pagina qualsiasi di un mio libro. Poi espongo nel mio salotto il
libro aperto su quella pagina. Posso affermare di possedere un’opera
d’arte contemporanea?». Io gli ho risposto di si. Avvertendolo però
di non chiamare il suo intervento come una “cancellatura” di parole,
ma come una «decontestualizzazione». Dopo di che dovrebbe dire di
averla acquistata per almeno 25.000 euro a Berlino. Avrebbe ottenuto
gridolini d’ammirazione delle sue invitate e l’invidia dei suoi
amici. I più informati avrebbero riconosciuto un’opera di Emilio
Isgrò.
Complimenti per il tuo lavoro. Non è un’affermazione di maniera.
Continua così. Un abbraccio.
Carlo
P.S. –
Quando il lavoro di Damien Hirsch col pescecane, pagato 12 milioni
di dollari, è andato a male (il pescecane in formalina si è squamato
tutto e andava in putrefazione), i galleristi sono andati in Malesia
per chiedere ai pescatori di recuperare un nuovo squalo di 4 metri
per poterlo sostituire. I pescatori della Malesia hanno risposto:
«Scusate, ma noi oggi, catturando uno squalo, siamo pescatori o
artisti?».
Meditate, gente, meditate.
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19/03/2011
Vorrei
provare a suscitare un confronto tra gli intervenuti. Anche con un
pizzico di polemica.
Ma come si fa a provare a riprendersi la scena del contemporaneo?
Avete mai provato a leggere come viene divulgata l’arte figurativa?
I suoi nemici vanno giù duro: Angela Vettese su “Il Sole 24 ore”
taglia secca i pittori figurativi definendoli “copioni”. E
non lo dice ai dilettanti, ma a Bacon e Balthus. Figuriamoci cosa
direbbe a me (è nota la mia immodestia).
Gillo Dorfles è ancora più diretto. Afferma che nel panorama
dell’espressione artistica contemporanea non vanno compresi i
pittori figurativi. Con chiarezza diretta dichiara che “la
distinzione, infatti, non si pone [per lui] tra astrattismo e
figurativismo, tra oggettualismo e concettualismo, ma tra
autenticamente attuale e arte di derivazione dal passato e inattuale”
[1].
Achille Bonito Oliva, dopo aver portato al successo pittori che
dichiaravano che non era più necessaria la maestria del dipingere
(transavanguardia), pensa bene di escludere persino l’opera d’arte
manufatta, organizzando Artefiera First 2006, dove “inviterà
artisti di fama internazionale a raccontare al pubblico una loro
opera molto particolare, un’opera che pre-esiste nella loro
immaginazione di cui forse anche pentirsi: un’opera che avrebbero
voluto realizzare ma non hanno potuto fare”[2].
Siamo all’incanto più geniale: ammirate quello che non sono riuscito
a fare!
Ma fin qui è semplice: parlar male dei critici dell’ “altra sponda”
è facile. È come sparare sulla croce rossa, anche se qui il
moribondo forse siamo noi.
E già mi sento le critiche: in figura è già stato detto tutto, come
puoi pensare che si possa ancora dipingere in modo figurativo?
Oppure: ti comporti da invidioso, come nella favola della volpe e
l’uva. O anche: sei uno che non si intende di arte contemporanea.
Ok, incasso. Provo allora a rivolgermi alla divulgazione dell’arte
figurativa. Provate a scegliere tra i dépliants o i cataloghi che
avete nel vostro studio che riguardino un pittore figurativo.
Provate a leggere le presentazioni. Il novanta per cento si
esprimerà così: come è la ricerca del pittore presentato? “Tormentata”.
E come sarà la sua attività? “Sofferta”. Ma cosa vorrà mai
dire con quelle sue pere sul tavolo? “Il disagio d’esser separati
dalla vita”. E di che cosa ci parla con quelle figure in primo
piano? “Della malattia dell’animo”. E che cosa ci fa quel
computer dipinto vicino al nudo? “È il nostro malessere
esistenziale”. Ma come conduce il suo lavoro il nostro pittore?
“Vaga tra i fantasmi della nostra mente”. È tutta una “autoindagine”
per uscire dal “carcere della ragione”. Ma quella macchia
scura a destra del dipinto? È un “urlo esistenziale”. Alla
fine non ci resta che piangere.
I corsivi non sono miei, ma sono tratti integralmente da testi con
cui viene divulgata la pittura figurativa.
Un tempo Mino Maccari ammoniva: “Non comprate quadri astratti:
fateveli!”. Aveva ragione, visto che con la figurazione ci
metteremmo in casa una immensa tristezza.
Meditate gente, meditate.
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24/02/2011
A Firenze, nel XV
secolo, non esistevano i giornali, tanto meno la televisione. I
partiti politici (che di solito coincidevano con dinastie
famigliari) non disponevano quindi dei moderni mezzi di
comunicazione di massa per persuadere l’opinione pubblica. Per
questo il “partito” mediceo pagava alcuni personaggi affinché
diffondessero tra la gente quei “si dice” che tanto trovavano
ascolto tra il popolino, che così poteva venir orientato nelle sue
opinioni. Questa figura veniva chiamata “mestatore”. Costui era un
personaggio scaltro, ammiccante, dalla parlantina facile e dalla
mimica persuasiva. Con lo scorrere dei secoli assistiamo alla
trasformazione “professionale” del mestatore quando questo
personaggio pensò bene di sfruttare la credulità popolare e si mise
in proprio. Anche l’argomento dei suoi discorsi cambiò e dagli
argomenti politici passò alla medicina. Valendosi della sua
facondia, decantava e spacciava medicamenti portentosi (che di
solito erano acqua fresca colorata), vendeva cose da nulla
descrivendole come reliquie miracolose, e, quando incontrava una
piazza particolarmente scettica, si adattava ad estrarre denti.
Anche il suo nome cambiò e da mestatore la gente passò a chiamarlo
«ciarlatano».
Queste figure a noi paiono scomparse, ma se ci pensate bene in
realtà sono integralmente sopravvissute solo che, invece che di
politica e di medicina, oggi si occupano d’arte. Anche il loro nome
è cambiato: oggi si chiamano «televenditori» o «esperti d’arte».
Intendiamoci, non vogliamo generalizzare, non tutti gli esperti e i
venditori d’arte sono ciarlatani, ma certo è che il mondo dell’arte
ne ospita parecchi impunemente.
Abbiamo provato
tutti ad assistere ad una vendita televisiva di opere d’arte. Sono
trasmissioni solitamente notturne e, per effetto del torpore che ci
prende in quelle ore, diveniamo più tolleranti nei confronti del
linguaggio con cui ci vengono presentate le opere. Ma se provassimo
a prendere sul serio quello che ci viene detto potremmo scoprire che
spesso l’eloquio iperbolico del presentatore diviene una vera e
propria pantomima comica. Qualunque sia la qualità dell’opera ci
viene detto (o meglio ci viene ripetuto ossessivamente) che si
tratta di un’opera introvabile sul mercato, che noi siamo gli unici
fortunati che possono entrare in possesso di quello che è ambito da
tutti i musei del mondo, ma che se siamo svelti a telefonare avremo
un pezzo di storia dell’arte che entra in casa nostra. Naturalmente
il prezzo è da scontare e quindi le migliaia di euro che avrebbe
speso un museo, per noi, fortunati spettatori, diventano poche
migliaia.
Il linguaggio è del tipo più sconcertante: le parole, si ripetono
ossessive, con aggettivazioni enfatiche con locuzioni del tipo «ma
come fate a lasciarvela scappare», «un’occasione così non vi capita
più», «tra qualche anno varrà dieci volte quello che oggi pagate».
Ma il momento più comico è quando ci viene detto che l’opera è
“pubblicata”, mostrandoci una monografia dell’artista, e invitandoci
a credere che, per questo, quell’opera appartiene alla storia
dell’arte. Come se a tutti noi bastasse farsi stampare una
monografia per entrare dritti nell’olimpo della Storia. Il momento
culminante dell’effetto comico è spesso la zummata della telecamera
su un grumo di colore di un’opera indecifrabile, che fa scattare
l’esaltazione del televenditore che, estatico e rapito, ripete
ossessivamente: «guardate che roba!, guardate cos’è questo blu!
guardate il gesto, signori miei, siamo di fronte ad una macchia
...epocale (sic!)».
Ma la televisione
non è l’unica arena che talvolta ospita gli eredi dei ciarlatani
d’un tempo: lo sono anche certi cataloghi o dépliants di pittori
dilettanti che vengono innalzati dal critico d’occasione
(prezzolato) a livello di indiscussi maestri contemporanei.
Assistiamo così a pasticci dipinti, a scarabocchi improvvisati che
ci vengono descritti come profonde riflessioni sui turbamenti più
reconditi del nostro animo, con il critico presentatore che sciorina
iperboliche espressioni frammiste a citazioni raccogliticce, frutto
delle sue reminiscenze scolastiche. Dagli impressionisti in giù, da
quando cioè la necessità della maestria è andata sempre più
scemando, non c’è dilettante che non possa venir accostato ad una
corrente moderna o contemporanea di successo, e quindi il critico
imbonitore può spacciare il pittorello come un partecipante
all’impegnativo crogiuolo poetico contemporaneo. È un po’ come
fanno certi poeti improvvisati che scrivono una serie di frasi
comuni e sono convinti di comporre versi poetici che ritengono
“contemporanei” semplicemente andando a capo più volte del dovuto.
Ma l’imbonitore più
impudente è spesso un personaggio di fama riconosciuta, che si
aggira tra pulpiti televisivi, redazioni di prestigiosi cataloghi di
pubbliche mostre ed è spesso estensore di pesanti interventi nelle
pagine culturali dei quotidiani. Il suo gioco è sottile e
ricattatore: di fronte al probabile nostro stupore nel veder
decantato quello che ci appare come una misera cosa, egli carica il
proprio linguaggio con metaforiche espressioni, con locuzioni oscure
che possono confonderci.
Qualora ci ostinassimo a valutare come stupidaggine quello che ci
viene presentato, ecco allora il classico ricatto finale, che
consiste nella famosa frase «lei non se ne intende di arte
contemporanea». Se non ci credete ecco un esempio: un artista russo,
Oleg Kulik, propone l’opera "I bite America and America bites me"
nella Deitch Projects di New York. L’opera consiste nell’artista
stesso, completamente nudo, legato al collo con una catena, in
posizione a quattro zampe, col sedere all’insù, che tenta di mordere
chiunque gli si avvicini. Ecco come ci viene descritto nel catalogo
che ospita la performance «...Kulik offre allo spettatore un
intrattenimento voyeristico denso di provocazione, ambiguità e
ambivalenza. Nel tentativo di instaurare un dialogo tra l’uomo e
l’animale, Kulik cerca di sottolineare la necessità di creare una
società basata sulla simbiosi tra Natura e Umanità, interrogandosi
su che cosa significhi per un uomo “essere uomo”...». Tremila anni
di filosofi non ci sono riusciti, ma, stiamo tranquilli, è arrivato
Kulik! Lui ci chiarisce tutto sulla «simbiosi tra Uomo e Natura» e
ci mostra cosa significhi essere uomini.
Ma non è solo l’estensore del catalogo a contrabbandare per
filosofia le callipigie terga dell’artista in questione, anche un
critico di fama internazionale, inventore di una delle correnti più
chiassose del panorama contemporaneo, ce la mette tutta e così si
esprime (tra parentesi quadre cercherò di spiegare il suo
linguaggio). Egli afferma che questo tipo d’opere (Happening ed
Events) costituiscono «...la vaporizzazione estetica [il dissolversi
degli elementi che tradizionalmente costituiscono le opere d’arte]
di un processo creativo che tende a smaterializzare l’opera e a
valorizzare il momento aggregativo tra l’artista e lo spettatore
[Kulik che azzanna le gambe degli spettatori]. Prevale il valore di
partecipazione attiva [lo spettatore si spaventa] che rende tribale
[Kulik fa “grrrr”], sincronica [mentre Kulik fa “grrrr”
contemporaneamente lo spettatore emette gridolini] e sinergetica
[scambio tra la forza del morso di Kulik e il suono prodotto dal
gridolino dello spettatore] l’azione collettiva dell’artista e degli
spettatori».
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Tre interventi: 29/03/2011
19/03/2011
24/02/2011 |