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GILBERTO CARPO
pittore
(sito personale)
27/03/2011
Dopo aver
letto l’ultimo intervento del collega Carlo A. Galimberti, mi viene
da chiedermi: dobbiamo forse frenare la nostra espressività o
frustrarci solo perché viviamo in un periodo di confusione dove
qualche operatore critico o pseudo tale inventa interpretazioni
diverse rispetto al panorama dell’arte?
Ognuno è
libero di pensarla come vuole e dare valutazioni più o meno sincere.
Ciò che importa è entrare nel dibattito, dire le proprie ragioni
senza mortificarsi, anche se qualche noto personaggio ti colloca
nella retroguardia. E allora? personalmente non me ne frega più di
tanto. Io ho la mia verità e come tale la affermo perché contiene
parte della mia vita, delle mie convinzioni, delle mie scelte, che
ritengo oneste e libere. Penso che questo sia già di per sé
importante nell’oggi in cui viviamo.
Vi sono già state nel passato divergenze di correnti tra astrattisti
e figurativi, tra surrealisti e futuristi ecc.
Ognuno era convinto che in ogni tendenza vi fosse l’assoluta verità,
senza capire che ognuna di queste era già per se stessa verità, e
che tutte insieme hanno arricchito la storia del novecento. Ogni
verità non è un aspetto assoluto delle cose, è la proiezione
limpida e pura di un intenso vigore di vita, a cui la vitalità del
mondo risponde in uno sviluppo infinitamente aperto e fecondo
(Antonio Banfi).
Non
cadiamo nello stesso errore di Angela Vettese e Gillo Dorfles. Se
vogliono difendere a spada tratta i loro paladini, a scapito della
corrente figurativa, si assumono pienamente le loro convinzioni,
noi ci assumiamo le nostre. E, con le dovute proporzioni di merito,
sono ben felice di appartenere alla “retroguardia” di un Balthus o
di un Bacon. Come dire: l’artista deve avere come supporto
dell’espressione un proprio modo di concepire la vita, un proprio
pensiero che gli permetta di trovare le strade a lui più congeniali.
Essere supportati da questo significa attingere ed abbeverarsi,
trovando contenuti e forme estetiche proprie. Ed in questo modo io
ci provo e cerco.
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15/02/2011
Caro
Giorgio,
ecco alcune considerazioni che ho sempre considerate importanti ed
assolute e, inoltre, vere in qualunque momento storico.
Cosa si intende per arte? In primis l’arte, appunto, deve vivere
nell’intera personalità dell’artista in modo creativo, in un
processo di realizzazione reciproca fra individualità, socialità,
ambiente e cultura.
Il soggettivismo dell’artista si confronta storicamente: raccoglie,
elabora, trasforma. Esso si pone e si distende in un’idealità in cui
l’uomo sperimenta la propria sensibilità. È pulizia dello spirito, è
onestà, è l’atto soggettivo del trasporto visivo, è l’anima che si
concretizza e si racconta. E l’immagine diviene, così, visione
estetica del suo libero sentire. È percezione, intuizione e parte
razionale, è costruzione tecnica, è intelligenza.
Sono elementi che vanno a dipanarsi ed esprimersi in un’unica
sostanza.
Questo scavare nel profondo dell’essere è amore portato in
superficie, ed è forse proprio questo che colpisce il cuore
dell’osservatore, cui l’artista propone ed offre sé stesso.
Mi pare che questo modo di sentire sia comunque contemporaneità, sia
comunque valido in tutti quei momenti in cui l’uomo elabora la
propria creatività.
Ho
l’impressione che nel postmoderno la così detta “arte contemporanea”
non esista più: il brutto non è più brutto, il bello non è più
bello, il concetto estetico ben lontano dal porsi.
Forse un’arte effimera? Certo un’arte senza fatica. E la confusione
totale.
Cade ogni distinzione, cadono i paletti: “poesia, armonia,
equilibrio, sentimento e volontà di interrogarsi con il passato”.
Tutto è ribaltato: il sesso si confonde con la pornografia, la
politica con l’opportunismo, l’essere con l’avere.
Migliaia di anni di storia, di ricerca, di tasselli, di spunti di
studio e di apprendimento non sono più degni di essere presi in
considerazione?
È il
nuovo a tutti costi? O forse è più corretto esprimersi in modo
nuovo?
A mio avviso si tratta, in altri termini, di ripensare il rapporto
fra tradizione e futuro, facendo appello al monito di Friedrih
Niezsche: “Ciò che distingue le menti originali non è essere i primi
a vedere qualcosa di nuovo, ma il vedere come nuovo ciò che è
vecchio, conosciuto da sempre, visto e trascurato da tutti.”
In questa confusione, viviamo momenti e situazioni in cui ognuno di
noi, suo malgrado, viene proiettato.
Sono riflessi di uno stato sociale in decadimento politico, morale
e culturale, che denuda ogni idealità.
Il consumismo e la pubblicità attanagliano l’essere con un solo
fine, di renderlo malleabile, influenzabile e gestibile.
Tale
condizione riporta l’arte, purtroppo e senza illusioni, nel nostro
intimo, e rivela la nostra misera realtà.
È come se l’arte si rivoltasse su sé stessa, per lasciarsi andare
alla tentazione di annientarsi nell’entropia.
In una società in declino, ciò che si dovrebbe cogliere è il
pericolo di trascinare con sé l’arte e con essa il suo essere
propositiva. Se non venisse salvaguardata, protetta, sarebbe un’arte
paragonabile a un fungo champignon, completamente staccato e
scollegato dal terreno della vita.
L’artista
attento, sa vedere gli elementi. Li riordina, ritrova valori formali
con impegno di rinnovarli; un armonico equilibrio di percezioni
estetiche, una nuova energia di forma e di colore, di composizione,
ove l’amore per le cose diventa ancora valore da tramandare.
Vi è anche la società mercantile. Il peso della sua pressione. Non
possiamo, non dobbiamo permettere che l’arte diventi solo
mercificazione, in cui la moda prenda il sopravvento. Il mercato
rischierebbe così di condizionare scelte estetiche, globalizzandole
a scapito di ricerche peculiari.
Sono diversi interrogativi che mi pongo, sono riflessioni di uno
stato sociale in cui mi trovo ad operare.
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Due interventi:
27/03/2011
15/02/2011 |