008

Ennio Calabria
pittore
(sito
d'interesse: Wikipedia)
(sito d'interesse:
In Tempo)
LA COSCIENZA E
IL TEMPO
Se oggi le fasce
intellettuali vanno spostando la loro attenzione e il loro
investimento sui dinamismi espliciti dei processi mentali in
adesione ad una società della superficie, il consumismo al
contrario diviene l’unico intellettuale (chiamiamolo così) che
lavora sulle dimensioni inconsapevoli della personalità, proponendo
ad esse di scegliere tra l’esilio e il rientro in patria con un
falso documento d’identità.
Ma in questa patria ci sono masse di individui svuotati di anima,
vestiti di tecnologie, persi nei telefonini, sensibili al
riprodotto, indifferenti all’originale, disposti a festeggiare uno
sconosciuto purché famoso, accarezzati da un seducente richiamo che
unifica le loro volontà e i loro sogni, in un eccitante conformismo,
che riconosce ciascuno dicendogli: “tu vali .. sei speciale ..
proprio per te ...solo tu ..”
Questo, purtroppo, è il destino delle masse, le quali sono
culturalmente sempre subalterne e spostano il proprio interesse
dall’originale al riprodotto.
Tuttavia,
nell’attuale assetto sociale, la massa è l’interlocutore decisivo
delle strategie economiche ed impone alla dimensione degli scambi
reali della società la graduale esclusione dei livelli alti della
cultura, perché essi producono e inducono differenziati livelli di
appetizione a causa del loro spirito critico e della loro capacità
di autonomia. La massa invece è economicamente utilizzabile se si
identifica un minimo comun denominatore che sia capace di livellare
i desideri, le volontà e la percezione dei bisogni. Su questo poggia
il grande inganno: l’identità individuale è autorizzata ad esistere
socialmente proprio attraverso la sua morte per conformismo.
Questo
inganno oggi ha particolare successo perché si è prodotto un inedito
divorzio tra due fondamentali dimensioni della personalità psichica:
quella pragmatica, che ha necessità di lavorare in tempo
reale sulla fase conclusa dei processi e sui codici già definiti; e
quella complessa, che ospita il processo in atto e che è
espressione delle dimensioni introspettive della personalità, agite
dall’attività dell’inconscio e fondamentali per rinvenire le cause
prime dei successivi comportamenti.
Tale divorzio ha distrutto la collaborazione tra queste due
necessarie parti della psiche che, separate, non hanno più capacità
di autonomia e di libera identificazione del valore, né possono più
identificare un soddisfacente rapporto di causa effetto che spieghi
i fenomeni.
Ciò appare evidente
osservando l’attuale limitata capacità della politica di leggere la
realtà sociale in rapporto ai processi mentali che l’agiscono.
Tale divorzio decreta non solo la fine dell’interazione tra queste
due polarità, ma annulla la stessa disposizione a fare interagire
qualsiasi altra polarità con la sua antagonista. Per cui il pensiero
dualistico perde vitalità, la cultura collassa nel nozionismo e le
esperienze non si relazionano più tra loro, ma semplicemente
coesistono.
Tutto ciò che ho
detto è causato dall’alto livello della velocità degli scambi.
In questo scenario, infatti, si modificano anche le circostanze di
identificazione delle identità. Ad una velocità più lenta, per
esempio, un pittore (che utilizzo proprio come soggetto emblematico)
disegnava i contorni dell’oggetto, e ciò significava che tra lui e
quell’oggetto esisteva una distanza sufficiente, uno spazio
temporale e mentale che gli consentiva di definire i confini
dell’oggetto stesso.
Ora, per l’alta velocità degli scambi, quel pittore collassa
nell’oggetto, diviene parte di esso: e lo azzanna il terrore di non
riuscire a identificare più non solo i confini dell’oggetto, ma gli
stessi confini di sé.
Cosa fare? Occorre
spostarsi indietro fino a ritrovare i propri geni, che essendo
diversi da quelli dell’oggetto esterno, gli consentono di ridefinire
la propria identità. Da ciò deriva che l’identità di un artista oggi
non è più nel suo racconto, ma nel suo primigenio nesso associativo.
Forse questo è il dinamismo che spiega il radicalizzarsi dei
fondamentalismi, che inconsapevolmente cercano nei propri caratteri
primigenii la strategia per difendere la propria identità, incalzata
da una tecnologia globalizzata, invasiva e cosificante.
Sembra quasi che
l’alternativa stia tra il rischio di una robotizzazione e quello di
una regressione che sembra essere, nella sua violenza,
un’inconsapevole reazione umana alla disumanizzazione.
In questo quadro diviene evidente la necessità di porre fine
all’esperienza interdisciplinare del ‘900, in cui la disciplina,
subordinando la propria integrità ad una pura ipotesi ideologica,
quella dell’unità della poesia, cedeva parti di sé alle altre
discipline, penalizzando così la propria potenza di verità.
Oggi appare chiaro
che una disciplina deve radicalizzarsi in sé, andando caso mai a
rinvenire nei propri tratti fondanti le ragioni primigenie della
propria natura e funzione.
Comunque, tornando alle due dimensioni della personalità ormai
separate, vorrei precisare che ad esse corrispondono in arte due
comportamenti produttivi nettamente differenti tra loro e, di
conseguenza, due diverse definizioni della natura dell’arte.
Uno dei due filoni è
il così detto “sistema dell’arte“ che, in derivazione dal dominio
ormai assoluto della società pragmatica (o, per meglio dire, della
società della superficie), esclude anch’esso, pur nelle sue
molteplici articolazioni, le dimensioni introspettive della
personalità, e quindi esclude l’attività dell’inconscio.
In questo caso l’artista utilizza soltanto la propria cultura,
concettuale o estetica che sia, il proprio gusto e infine la
propria manualità; oppure costruisce un equivalenza tra livello
tecnologico e qualità estetica. Egli esteticizza concetti per lo
più preesistenti, li emozionalizza a volte, ma non li genera, perché
escludendo l’attività dell’inconscio si comporta come un ragioniere
informato esteticamente, ma anche consapevole che non conta la
verità in sé, ma ciò che può sembrare vero. Naturalmente non può
rinunciare a richiamare l’attenzione del fruitore, magari usando il
sensazionalismo, ma poi quando quello si volta, l’artista non ha
spesso nulla dell'innovatore, ma in realtà si tratta ormai,
purtroppo, di una odierna arte di regime, una ormai stanca accademia
che canta la stessa vuota canzone, ignara che nel frattempo la vita
è andata avanti, molto molto avanti…
Quanto all’altro
comportamento artistico, quello che deriva dalle dimensioni
complesse della personalità esiliate dalla realtà dei dinamismi
sociali, per brevità non ne parlo, visto che la sua configurazione
credo emerga dall’intero mio scritto. L’anima e Dio sono volati via
e forse qualche volta si recano a trovare le dimensioni
introspettive della personalità individuale nel loro esilio, e
magari ad aiutarle a ritrovare le parole per esprimersi, quelle
parole che sono state loro confiscate quando sono state cacciate
fuori dalla persona sociale.
Questi spessori profondi della personalità si sono rifugiati nel
profondo di essa, nascosti persino alla coscienza consapevole, che
odiano perché in essa riconoscono la società che li ha esiliati e
cercano di aggredirla di sorpresa.
Quando leggiamo la cronaca nera ci troviamo di fronte a fatti
tragici in cui non riusciamo a costruire un rapporto soddisfacente
di causa/effetto. Ecco, forse sono loro, le dimensioni complesse, le
vere responsabili. E quelli che hanno compiuto quel crimine
spaventoso se ne chiedono il perché.
Ma se in esilio si
piange, anche in patria non si ride. L’individuo ormai regredito è
nudo nella sua animalità. La coscienza è frastornata e vuota;
il corpo, anch’esso regredito a “oggetto” della natura perché
separato dalla sua psichicità, pesa come mai in passato
sull’elaborazione di ciò che resta di una coscienza scissa e
confusa.
Così questo tipo di
uomo non ha più la forza di dissociarsi dall’automatismo della
natura, si fa simbiotico alle sue leggi spietate e sembra regredire
a tal punto da opacizzare in sé quella grande conquista evolutiva
che è l’autocoscienza.
Ciascuno sprofonda in una tetra autoreferenzialità. In tale
autoreferenzialità le esperienze coesistono, senza che si stabilisca
tra esse una relazione di senso. L’unica relazione possibile si
configura come rapporto di forza tra le reciproche capacità di
impatto espositivo.
L’autorità del piano
oggettivo delle convenzioni sociali ha perduto credibilità. E’
divenuta il teatro in cui infiniti attori recitano ciascuno per
proprio conto, e se ci sarà un copione unificante la coscienza,
questo accadrà in un incerto futuro.
La coscienza collettiva non esiste più, ma è divenuta falsa
coscienza, in cui vero e falso si interscambiano, e la loro
reciproca verità deriva soltanto dal buon esito dell’affare. Solo la
travagliata coscienza individuale in profonda trasformazione è forse
capace di produrre, a volte, testimonianza di verità, ma l’angoscia
aggredisce perché si ha l’impressione che d’ora in poi la produzione
creativa della coscienza individuale non avrà più speranza di essere
giudicata e pertanto di poter essere riconosciuta come bene
collettivo. Essa rischia di restare separata e di poter avere forse
solo rapporti con qualche anima gemella che, per ragioni altrettanto
oscure, la sentirà vicina a sé.
Io ho
come l’impressione di vivere in uno spazio chiuso senza specchi. Mi
tocco il volto e spero di essere come mi immagino, ma non posso
esserne certo perché non ho specchi.
In sostanza
non sono giudicabile. Ciò non dovrebbe stupire, visto che oggi i
valori non sono identificabili, se non per ciò che producono
economicamente.
Ma la tristezza
irrompe perché sento che quegli ambìti specchi che ti definiscono
non torneranno forse più. Saremo noi pittori che concepiamo l’arte
come necessità (perché essa consente di reinventare quell’arto,
che la vita ci ha amputato) i ventriloqui che usano l’aria interna
per parlare ad un esterno ormai sordo.
Dicevo che Dio forse
va a visitare la personalità introspettiva esiliata. Ma non è
possibile anche che si intenerisca di fronte a questo uomo di nuovo
nudo? Non è possibile che egli voglia che l’orientamento venga
riconosciuto nel farsi stesso della vita, perché in essa c’è
qualcosa di “universale” ?
Ma poi per l’aumento abnorme della velocità con cui ormai la nostra
mente scambia, non si è forse prodotta una nuova articolazione del
tempo per cui anche il passato prossimo è ormai tanto remoto che non
ha più nulla a che vedere con il nostro presente? Questo uomo nudo
di simboli e di passato è oggettivamente “spaesato”. Certo, così
come i capelli diventano tiepidi per la luce del sole anche quando
il sole non c’è, noi avvertiamo il sospiro del passato, ma è un
dialogo con il passato fatto di sintomi non più
verbalizzabili. I sintomi, infatti, sono molto compatibili con il
corpo che in questa fase diviene un prezioso informatore della mente
complessa, perché non interpreta le informazioni che riceve ma,
appunto, le sintomatizza, cioè ne amplia le implicazioni
sulla personalità. E’ come se avessimo fisiologizzato la storia e
la memoria. E’ come se ci preparassimo ad accogliere un oltre
la storia.
Voglio dire che non
ci troviamo di fronte a patologie momentanee di una società che
conserva la propria natura di sempre. Ci troviamo invece di fronte a
vere mutazioni. Non si tratta, come pensano molti intellettuali, di
deviazioni, per esempio, ideologiche, ideali e religiose o comunque
derivanti da cause di natura direttamente antropomorfa. Ci troviamo
invece di fronte ad ibridi, cioè a dire a fattori dimensionali,
quali la velocità, lo spazio, il tempo.
Prima tempo e spazio
pattinavano assieme. Ora il tempo se ne va oltre e si fa tempo della
coscienza. Duttile e sfuggente, trasporta nella sua corsa il
dato, sino al turbinio dei nostri dubbi e delle nostre
impotenze. Così quegli intellettuali non si rendono conto che
infinite particelle di a-storia entrano con violenza nel farsi della
storia e che la stessa coscienza è in trasformazione strutturale,
poiché va cedendo i propri attributi morali sostituendoli con il
concetto di “funzione” che nei casi fortunati si fa “evolutiva” .
Questi intellettuali di conseguenza non si rendono conto che ciò
comporta la necessità di rifondare i loro stessi riferimenti.
Del resto il relativismo, relativizzando ogni posizione ideologica
e ogni sistema di pensiero su cui si reggeva la possibile
interpretazione della vita, rinvia alla vita stessa, riconoscendola
come “motore primigenio” da cui deriva il pensiero che, oggi, ne
diviene “servizio”.
Lo stesso
fenomeno, che prima veniva significato dal suo esterno grazie ad
un sistema di pensieri condiviso, oggi propone al suo esterno se
stesso, comprensivo della propria interpretazione.
Così oggi il vivente diviene una fonte informativa che, al
suo apparire, condanna le parole ad un lontano ieri.
Ecco, non è forse possibile che le potenzialità del corpo, di fronte
ad uno scenario inedito, richiedano oggi alla mente una maggior
umiltà per costruire una comune strategia difensiva dell’individuo,
che si fondi su una necessaria maggior pariteticità di
investimenti?
E qui vorrei farmi e
fare una domanda. Può il soggetto nella sua forma storica, cioè un
soggetto che muove da certezze che lo precedono, ma sempre in
coerenza di consenso o di contestazione con esse, può tale forma di
soggetto reggere all’irruzione di quell’ibrido dimensionale di cui
ho detto?
Può riuscire a rapportarsi ad una coscienza non più preorganizzata
dal già pensato? Può sopravvivere allo spaesamento generato dalla
perdita di orientamenti certi e durevoli?
Può rapportarsi ad un potere anch’esso cosificato e cosificante,
com’è quello presente, ormai simbiotico all’automatismo del modello
economico che ci sta di fronte?
Può accettare che la figura simbolica del padre docente non sia più
collocata nel passato, ma sia espressione ormai dello sconosciuto
futuro e che in esso alloggi?
Sino ad ora ci siamo
ritenuti responsabili soltanto di ciò di cui abbiamo consapevolezza.
Abbiamo ignorato che sia le nostre azioni consapevoli sia quelle
inconsapevoli producono effetti sull’ambiente.
Forse iniziamo oggi a comprendere che le attività di quelle parti
della psiche, sempre ignorate dalla storiografia e dalla
collettività in quanto ritenute separate dalla coscienza (perché
esterne al territorio di cui la coscienza si fa carico), devono oggi
essere reintegrate entro la responsabilità della coscienza sociale.
Ciò comporta questioni importantissime che già forse
inconsapevolmente, ma con determinazione, sono apparse nel travaglio
dell’arte del primo 900.
In sintesi, in quel travaglio credo fosse decisiva la necessità di
sperimentare una nuova forma della soggettività capace di contenere
in sé nel contempo sia il soggetto consapevole, sia quello
inconsapevole; sia il progetto, sia la casualità; e – io aggiungerei
– sia la storia, sia i nuovi ibridi causati da eventi dimensionali,
cioè, come già detto, da particelle di a-storia, di cui forse il
processo di industrializzazione anticipava una possibile
rappresentazione.
Quegli artisti del
primo ‘900, per vie diverse, avevano presagito e percepito la crisi
della forma storica di un soggetto che muoveva da certezze che, se
pur negate, restavano comunque per lui l’orientamento; soggetto che
pretendeva di controllare tutto e di riportare ai propri schemi
l’azione della casualità, negando ad essa la sua libertà.
Duchamp, per esempio, spinge la propria creatività individuale e la
sua diretta responsabilità consapevole sino al negare l’efficacia
della logica. Egli fa appunto questo nell’affermare che un oggetto
recupera il significato più innovativo di sé quando abbandona (o
meglio, si sottrae) alla consequenzialità prevedibile dal suo
contesto logicamente funzionale.
Poi Duchamp affida ad uno spazio espositivo l’oggetto che,
decontestualizzato, perde non solo la sua funzione, ma anche la sua
appartenenza ad una percezione collettiva e condivisa. E da quel
momento saranno i visitatori a ri-percepirlo, ciascuno attraverso le
proprie soggettive emozioni.
I
futuristi non hanno posto in crisi il soggetto nella sua forma
storica nella misura di Duchamp ma, forse per influenza
nietzschiana, ne hanno iperpotenziato le risorse, al punto da
immaginarlo capace di simbiosi con la velocità e con le sue
tecnologie.
Tuttavia, pur avendo
i futuristi avviato un nodo problematico di cui alcuni elementi oggi
tornano nei processi digitali dell’immagine come distinzione tra
carne, corpo e tecnologia; pur nelle svariate scomposizioni
dell’immagine; pur nella fantasia disumanizzante; pur nel sogno di
simbiosi con la velocità e la macchina; pur nel non-abbandono della
retinicità, per essi si trattò di una vitale corsa, almeno nella
maggior parte dei casi, lungo il processo lineare del tempo e
del pensiero, lontano dalla postuma intuizione tridimensionale
di Fontana.
Klee cerca cosa rende l’uomo, e forse l’artista, unici, non
clonabili, necessari e non alienabili ed identifica questo quid
con l’inconscio.
La stessa avanguardia sovietica pone in crisi il soggetto
dirigistico attraverso la condanna del soggetto sciamanico in cui
identificava l’artista nella sua individualità. L’artista non doveva
essere considerato come un’eccellenza creativa, ma come un portatore
di tecniche e di sapere estetico, mentre i contenuti ce li avrebbe
messi la gente nella sua creatività quotidiana. Si tratta dello
stesso concetto che Duchamp esprime quando delega ad altri la
definizione dell’oggetto decontestualizzato.
Infine, tra i pochi
esempi significativi che posso portare per brevità, c’è il caso
Pollock.
Pollock, come Duchamp, sente i limiti del proprio controllo diretto
sull’opera e allora, quasi per liberarsene, spinge il proprio
controllo sino a progettare il gesto che lo liberi da se
stesso. Questo gesto segna la fine del controllo ed apre alla
sovrana libertà delle casuali colature della materia, liberata
dall’automatismo di un gesto scudisciante della mano.
Ma al contrario di Duchamp, Pollock affronta la grande questione
della trasformazione della soggettività, assumendo tale
trasformazione in una continuità con se stesso.
Come in uno stato ipnotico per la reiterazione del vagare tra sapere
e non sapere, egli si fa carico della sovrana libertà della
casualità, ma senza vessarla e senza riportarla al sé consapevole.
Così, come un medium si pone come canale vuoto che l’entità
utilizzerà nella propria autonomia, Pollock si lascia utilizzare da
quella capricciosa e imprevedibile entità che è il “caso”, e ne dà
testimonianza nella continuità di se stesso.
Io credo che nella semicoscenza Pollock in qualche modo sia riuscito
a modificare la propria, diciamo, velocità psichica. Ciò gli
consentiva di accompagnare l’accidentale prodursi della forma e di
assumersene la responsabilità in tempo reale, divenendo egli stesso
servizio di quell’accadere.
Forse in questo si
coglie la fondamentale differenza tra la pratica dell’arte e quella
della scienza. Parlo di pratica poiché l’intuizione iniziale, quella
che muove a cercare conferme, è la stessa per l’artista e per lo
scienziato. La differenza invece tra essi si configura nello
specifico modo con cui ciascuno di essi si rapporta allo
sconosciuto.
Il matematico
Shannon sostiene che ad un certo livello di entropia corrisponde
l’azzeramento delle informazioni. Spesso per l’artista, dotato com’è
di velocità psichica, questo non è del tutto vero, anzi spesso quel
livello entropico potrebbe configurarsi come un magazzino di
potenziali informazioni. Insomma, quella lateralità con cui
si etichettava l’artista per escluderlo di fatto dalla realtà, oggi
è necessaria proprio per riconoscere la realtà.
In tal senso la richiesta che Obama ha rivolto proprio in questi
giorni al regista James Cameron di impegnare la sua immaginazione
per contribuire all’arresto del versamento di petrolio nel mare,
impresa in cui la scienza per ora ha fallito, mi pare veramente
emblematica e di grande significato.
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10/02/2011 |