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Paolo
Baratella COSI’ L’IMPEGNO Una
forbice si aggira per l’occidente, e aprendosi allontana l’arte
dalla realtà, l’uomo dalla “verità”. Adesso sento quei momenti, quell’epoca non così lontana, ma certamente in quel modo, conclusa. Così la sequenza è andare ancora oltre, alla nascita del pensiero filosofico-politico, alle origini del pensiero occidentale, a quel pensiero greco, giudaico-cristiano nato nei deserti e tra i dirupi della Tracia. Sono stati territori questi dove gli uomini furono pervasi dal desiderio di verità, e la verità l’espressero così bene che suscitarono nelle generazioni categorie di pensiero su cui si fonda ancora oggi. La valutazione del bene e del male passa per queste categorie fisse. Nel 1965 fui invitato a Berlino per esporre alla Haus am Lutzowplatz; così cominciai la mia vita berlinese che, a varie riprese si sviluppò nell’arco di dieci anni, avendo ottenuto la borsa del DAAD del Senato, con grandi mostre nei principali musei d’arte contemporanea della Repubblica Federale Tedesca, con cicli di opere che portavano titoli significativi, come: “Es ist ein lachen das euch begraben vird” (sarà una risata che vi seppellirà), e simili. “La domanda e l’offerta” fu titolo di una mostra milanese da me organizzata che sancì nel 1967 il sodalizio estetico-ideologico con Fernando Defilippi, Umberto Mariani e Giangiacomo Spadari che continuò negli anni con esposizioni molto forti e dimostrative dal punto di vista ideologico nei musei d’Arte contemporanea di Parigi, Bruxelles, Karlsruhe, Zurigo, e le nostre partecipazioni ai “Salon” parigini, e più tardi alla fine degli anni novanta al Palazzo Reale di Milano. Ero stato condannato, non io, ma una mia opera contro il razzismo, prima a Parigi poi a Brive alla distruzione per ustione con acido muriatico, cosa che fece molto arrabbiare Jean Paul Sartre, il quale si pose a capo di un movimento d’opinione tra intellettuali e artisti per impedire l’atto barbarico, che puntualmente venne eseguito nel 1972. L’espressione artistica si era fatta partecipazione politica in presa diretta con la vita sociale. Così l’impegno. Molto impegnati erano anche Vostel, Beuys, Kienholz, Grutzche, Canogar, L’equipo cronica, Caniaris, Alvermann, Monory, Kitay, Tilson, Arroyo, Rancillac, Staek, Erro, Klasen, Ipusteguy, ecc…miei compagni di strada, senza dimenticare l’amico Renato Guttuso. Le cause che provocano ciò che si può chiamare “risentimento poetico” sono sempre le stesse. Per sua natura l’uomo ha una “iperuranica” idea di giustizia e di comune felicità dei viventi sotto ogni cielo. E’ così che nella forbice che si apre tra realtà sociale, ragione e sentire nasce l’indignazione/impulso all’espressione forte nelle forme proprie del momento storico. Vedo nelle diverse generazioni la medesima spinta ideale e umanistica, come dire, un comune sentire difensivo e denunciatario, analitico e poetico, politico, etico, linguistico. Non vedo una sostanziale distanza tra i significati dei modi d’espressione che dichiarano “l’esserci nel tempo”. Più romantico l’artista dell’ultima stagione generazionale che si muove tra nuove tecniche fatte di foto, video computer, comportamenti, installazioni ecc… di noi intossicati di umile fango colorato ma anche tecnicisti, lanciati in narrazioni a volte crude e simboliche, in cui l’estetica costituisce il fine morale irraggiungibile da ricercare instancabilmente come valore non effimero, universale. Così l’impegno. Ho amato, se pur nascostamente, nel tempo ormai ragguardevole del mio essere pittore, la riflessione, oggi dimenticata, forse all’indice, in ogni modo dismessa, di Gyorgy Lukàcs. Una sorta di fede in quel “rispecchiamento” del mondo nella scienza e nell’arte, nei loro modi specifici, in grado di dire verità. E’ proprio verità quel fare uscire dall’ombra della crosta mistificante le cose, nella loro luce e profondità significativa, rispecchiamento estetico del reale che si fa realtà, “prendendo posizione verso quel particolare nella prospettiva universale”. Grossomodo questa la traccia sulla quale mi sono incamminato fin dagli inizi: non per pedissequa conseguenza del dettato Lukàcsiano, ma per banale sintonia d’intenti. Così nasce la ricerca del linguaggio che scandisce il mio percorso artistico e la sua forma, la curiosità inesausta nei confronti delle conseguenze, forse non estreme, altre volte si, possibili, delle figure del mondo, frutto delle invenzioni dell’ immaginazione e della ragione, dell’animo mai sazio di stupore davanti allo svelarsi delle forme elaborate nel profondo. Sembrerebbe una professione di fede neoromantica in contraddizione con la durezza ideologica alla quale mi riferivo parlando della mia generazione, se non di me stesso. Ma l’artista è nudo, io sono nudo e guardo ancora come spettatore il mio lavoro nell’ attesa di rivelazioni. Così l’impegno.
Il discorso sulla verità inizia dall’inimicizia,
in quella zona antica del pensiero greco che sta all’origine,
come già dicevo, di tutti i pensieri dell’Occidente. L’io
pensante Baratella fa di queste originarie speculazioni la madre
di quasi tutte le proprie ispirazioni creative, devolvendone i
significati alla “parusia” dionisiaca, alla visionarietà ebbra.
Senza questa linfa il pittore che sono avrebbe da tempo
dichiarato forfait. Eraclito, l’oscuro di Mileto, dice
“pantarei”, tutto scorre; il divenire al quale tutto è
consegnato è caratterizzato da un continuo passare da un
contrario all’altro: le cose fredde si riscaldano, quelle calde
si raffreddano, le umide si disseccano, le secche si
inumidiscono, il giovane invecchia, il vivo muore, ma da ciò che
è morto nasce nuova vita, e così via. Fra i contrari che si
avvicendano c’è dunque guerra. Si tratta di una guerra che è ad
un tempo anche pace, un contrasto che è anche armonia. Con
Nietzsche ho incontrato Dioniso e Apollo, e la loro opposizione
e complementarietà mi ha mostrato, se non dimostrato, quanto
l’arte sia il frutto di un immane scontro d’ energie vive,
scontro tra razionalità e irrazionalità, una contraddizione
naturale insita in tutte le cose. Tutto è opposizione e
riconciliazione. La realtà vista con questa ottica può anche
chiamarsi “verità”. Così l’impegno espressivo dell’artista
vuole entrare in questo meccanismo metafisico per trarne il
linguaggio capace di mostrare le profonde strutture delle cose
del mondo, dell’animo dell’uomo, della sete di giustizia che
percorre gran parte dell’umanità, del suo sogno di felicità e d’
uguaglianza. Come si può rimanere indifferenti agli accadimenti
che sottraggono all’uomo ogni dignità, alla violenza che si
agita nel mondo, al lamento delle generazioni che hanno patito e
patiscono la spietata forza dei potenti? Quale estetica può
arrogarsi il diritto di distrarsi dallo scorrere tragico delle
vite , sacrificate agli irrefrenabili appetiti del profitto? (2007)
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