30/06/2020
UNA LETTERAx
Continuare il lavoro di artigiano paziente, con un po’
di paura ma con molta speranza
di Alberto Venditti
Caro Giorgio,
come
sempre
sei
stato
tempestivo
col
tuo
editoriale
sulla
questione
del
“ricominciare”
dimostrando
come
sempre
le
tue
qualità
di
combattente
di prima linea.
Viviamo
ancora
sotto
l’incubo
di
questo
virus
che
ha
l’aspetto
ameno
di
una
ghirlanda
di
fiori,
ma
da
quando
ha
iniziato
a
diffondersi
ha
mostrato tutta la sua furia e aggressività.
All’inizio
della
nostra
clausura
la
mia
pressione,
normalmente
bassa,
è
schizzata
alle
stelle;
il
cardiologo
mi
ha
dato
le
pillole
per
riequilibrarla
dicendomi
che
si
trattava
di
un
attacco
di
panico
e
che,
come
me,
moltissimi
ne
erano
colpiti.
Ma
più
che
le
pillole
mi
è
servito
davvero
sedermi
davanti
al
cavalletto;
continuare
il
mio
lavoro
di
artigiano
paziente, con un po’ di paura ma con molta speranza.
Nel
numero
precedente
della
rivista
ho
visto
con
piacere
che
hai
pubblicato
il
mio
dipinto
“Il
naufragio
dell’aquilone”
del
2017
che
è
la
metafora
di
uno
spavento
e
di
una
catastrofe
incombente;
l’aquilone
è
caduto
a
terra
e
i
suoi
pezzi
si
sono
ricombinati
tra
di
loro
come
un
progetto
del
geniale
architetto
Frank
Gehri,
facendoci
soprattutto
capire tutta la nostra fragilità.
Ricordo
che
tu
sei
stato
il
primo,
presentandomi
in
una
personale
del
1999,
a
parlare
di
questo
accadimento
improvviso
che
entrava
nella
mia pittura sconvolgendo l’assetto naturale delle cose.
In
questo
periodo
si
è
spesso
paragonata
la
lotta
contro
il
virus
a
una
guerra.
Ma
combattere
contro
un
nemico
invisibile
che
mostra
capacità
così
subdole
di
invadere
l’uomo
per
sopravvivere
non
può
che
terrorizzarci,
per
cui
la
nostra
guerra
è
combattuta
tutta
in
difesa;
siamo
chiusi
in
trincea
con
la
paura
di respirare.
Ma
la
guerra
tra
umani,
che
è
la
peggiore
delle
follie
perché
combattuta
contro
i
nostri
simili,
ci
ha
lasciato
a
volte
immagini
di
grande
coraggio
ed
eroismo
quando
gli
uomini
che
la
combattevano
hanno
dato
la
vita
per
degli
ideali
di
libertà
e
giustizia come tu sai bene.
Io
sono
nato
nel
1939
e
i
miei
ricordi
della
guerra
sono
quelli
di
un
ragazzino,
ma
hanno
inciso
molto
nella
mia
formazione
umana e artistica.
Guardo
con
interesse
ogni
documento
e
filmato
dell’epoca,
ma
quello
che
tra
loro
mi
ha
sempre
sconvolto
è
un
documentario
girato
dal
vivo
in
cui
si
vede
per
un
breve
momento
la
sequenza
di
un
soldato
che
suona la cornamusa durante lo sbarco in Normandia.
Gli
alleati
avevano
lanciato
una
valanga
di
uomini
e
mezzi
contro
un
nemico
molto
forte,
coscienti
di
giocare
una
partita
puntando
al
tutto
per tutto.
Il
filmato
ci
mostra
tra
nuvole
di
fumo
e
una
pioggia
di
fuoco
il
soldato
che avanza imperterrito e suona la cornamusa tra i suoi compagni.
Si è sopraffatti dall’emozione!
In
una
guerra
moderna
e
già
tecnologica,
il
protagonista
di
quelle
immagini
soffia
in
uno
strumento
arcaico
per
dare
coraggio
ai
suoi
compagni
e
ricordare
con
un’antica
aria
musicale
un
pezzo
della
terra
patria e della sua anima.
Ci viene in aiuto un termine ripreso da Vittorio Sgarbi, “sublime”.
Sì,
il
suonatore
di
cornamusa
è
sublime,
e
ci
regala
la
stessa
emozione
che si prova guardando la Cappella Sistina.
Caro
Giorgio
scusami
le
divagazioni,
ma
cercavo
di
spiegarmi
le
differenze
tra
le
due
guerre.
La
guerra
al
virus
la
sta
combattendo
la
scienza,
anch’essa
sperimentando
dalle
sue
trincee
tutte
le
vie
della
ricerca
e
talvolta
anche
sbagliando,
come
è
nella
sua
natura,
ma
fiduciosa del risultato.
Ma
tornando
al
tuo
allarme,
di
fronte
alla
“batosta”
che
è
stata
molto
forte,
dobbiamo
capire
che
si
deve
ricominciare
superando
l’egoismo
per
il
tramite
di
scelte
etiche
profonde
e
radicali
e
di
una
politica
nuova.
Intanto,
però,
siamo
ancora
dentro
la
pandemia,
e
non
sappiamo
quando e come ne usciremo, né in quale stato fisico e mentale.
Il
virus
come
coabitante
della
terra
invade
il
corpo
dell’uomo
per
sopravvivere,
ma
è
stato
l’uomo
a
liberarlo
infliggendo
ferite
profonde
al
pianeta
e
facendo
crollare
barriere
che
tenevano
in
equilibrio
l’ecosistema.
Il
fisico
Carlo
Rovelli
ci
dice
che
siamo
creature
naturali
in
un
mondo
naturale
e,
come
tali,
possiamo
risolvere
i
nostri
problemi
solo
se
comprendiamo
la
natura
quando
ci
lancia
i
suoi
messaggi,
e
se
consideriamo l’evoluzione della creatura uomo e della sua intelligenza.
Oggi
sul
pianeta
siamo
in
troppi
e
vogliamo
troppo,
e
per
questo
una
parte
della
popolazione
muore
o
fugge
dalla
propria
terra
perché
non
ha
l’essenziale
per
vivere,
ma
questi
grossi
problemi
si
risolveranno
soltanto con scelte politiche forti e coraggiose.
C’è
una
speranza
che
ci
riguarda;
i
filosofi
e
gli
antropologi
prevedono
che
da
catastrofi
come
questa
l’arte,
nel
ricominciare,
potrà
riacquistare
una
funzione
trainante
in
un
mondo
ormai
dominato
dalla
tecnologia.
Anche
l’uomo
del
domani
inseguirà
un
sogno,
perché
senza
di
esso
si
può solo regredire o impazzire.
PS:
Ti
mando
l’immagine
di
una
cosa
fatta
in
questi
giorni,
se
credi
puoi
accluderla allo scritto.